A Silvestro, che la sorte
non mi ha dato il tempo di capire
Mia zia dice che sono un abulico; Oreste che sono un uomo saggio; la moglie di Oreste, una donna dispotica e grassa, dice che sono un tipo strano, anormale. Un tempo avevo una fidanzata, Ada, mi ha lasciato perché diceva che sono un inconcludente; a scuola gli insegnanti erano concordi nel definirmi svogliato. Ognuno ha nella sua cassetta degli attrezzi gli aggettivi che usa a seconda delle circostanze. Io un po’ mi conosco: sono un uomo senza interessi, un uomo che non si cura del prossimo, ma neanche dell’avvenire, un uomo che vive completamente perso nel presente, nell’attimo. Mia zia mi ripete sempre: «Leggi un giornale, segui un telegiornale, informati!». Informarmi di che e perché?, ribatto io, se un tizio ammazza un uomo in un’altra città in cui non ho mai messo piede, se oggi va di moda il giallo anziché il rosso, se un terremoto fa diecimila vittime in un’altra nazione, se la Banca Europea alza i tassi di interesse, se a Londra aprano dei nuovi bagni pubblici, il fatto di venirlo a sapere anch’io, cambia forse qualcosa? Aiuto a scoprire l’assassino? A cambiar moda? Aiuto a far diminuire il numero delle vittime? Aiuto il Presidente della Banca a riflettere sulla sua decisione? A trovare più clienti per i bagni? Saperlo o ignorarlo non cambia assolutamente niente. La zia, quando faccio questi discorsi s’irrita. Sono un tipo impossibile che non conosce cosa vuol dire essere altruisti. «Cinico!» mi grida addosso vomitando la sua impotenza e la sua rabbia. Lei è un’insegnante in pensione ed è, come non perde mai occasione di ricordarmi, ancora una donna piena di interessi. A sessantacinque anni ha imparato Internet, a fare sms con il cellulare, a inviare email. Insegnava lettere in un liceo e continua a mantenere i contatti con alcuni suoi ex studenti. Si scrivono, si scambiano opinioni, come dice lei. Vecchi si è prima dentro e poi fuori, mi ripete spesso. Ma io non mi sento né vecchio né giovane, a chi mi chiede quanti anni ho, rispondo: «L’età che ti piace darmi!». Io, comunque, ne ho quaranta, e non sono né bello né brutto, né simpatico né antipatico, io sono un adattabile, mi mimetizzo con i colori dell’ambiente in cui vivo. Oreste dice che sono un filosofo. Ma Oreste, dicono gli altri, è scemo come me, perciò andiamo d’accordo. Quando siamo insieme parliamo poco. Ogni tanto dopocena lo vado a trovare. Oreste non sopporta la moglie che si perde dietro a tutte le fictions. Ornella, Ornellona come la chiamo io, è tutta contenta quando il marito si leva dalle scatole. Hanno un unico televisore e un unico figlio che lei monopolizza entrambi come cose sue. Io sono riuscito a convincere Oreste a fare a meno della televisione. Un tempo litigavano tutte le sere a causa di questo. Ora hanno smesso. Oreste è un mite. Un sottomesso, dice mia zia. Quando sono belle serate, io e Oreste ci mettiamo a bere una birra in giardino. Ogni tanto parliamo del tempo. Scrutiamo il cielo e poi rimaniamo in silenzio. Fuori, all’aperto, mentre vediamo le nuvole muoversi come dei grandi giganti. «A che serve parlare?», gli dico, «non vedi Oreste che quando le persone parlano è perché vogliono prevaricare?». Lui è d’accordo e ha tradotto la mia saggezza nel motto: «Meno si parla, meno si litiga». Ma la moglie parla molto, ha sempre qualcosa da dire. Oreste non le risponde, ha rinunciato alla lotta. Mi ha detto: «A che serve quando lei vuole avere sempre ragione?». Ma Ornella s’irrita e alza ancora di più la voce. Se è diventata brutta e grassa è colpa di Oreste. Lo dice ad ogni persona che incontra. Quando era giovane aveva dei bei lineamenti e un corpicino delizioso; un viso paffuto e rubicondo, begli occhi chiari e capelli lisci e castani. Adesso se li tinge una volta al mese, non si capisce più qual è il colore, e sta tutto il giorno incollata davanti al televisore. Dieta e cucina sono i suoi programmi preferiti. È una “palla di grasso”, mi dice la zia. A me piace parlare con Oreste, lui ascolta in silenzio. A volte, quando la sera bevo qualche birra di troppo, mi piace riflettere sulla vita. E Oreste mi ascolta, annuendo. Dal salotto sentiamo il volume alto del televisore, ma Oreste non si lamenta. Un tempo si sarebbe arrabbiato, ma ora la cosa gli è indifferente. «Vedi, Oreste, in realtà noi siamo degli esseri incapaci di pensare a una cosa soltanto». Poi faccio delle lunghe pause, perché non so neanch’io cosa voglio dire, e Oreste non mi fa nessuna domanda. Il pensiero mi si presenta confuso. La vista mi si annebbia, in quei momenti mi sento come il nucleo di un atomo colpito da mille elettroni, per cui cado in uno stato di completa apatia. Mi metto a fissare il fondo della bottiglia, e aspetto che il pensiero torni a galla. «Sai, Oreste, una volta ho letto su una rivista scientifica una teoria sull’universo». Continuo a fissare il fondo della bottiglia come se nel vortice della schiuma aspettassi il formarsi di una galassia. «È difficile pensare ad un’unica cosa. La vita scorre come la pellicola di un film. Se soltanto riuscissimo a fermare lo sguardo su un fotogramma, sull’attimo, sai quanti particolari riusciremmo a vedere? Sarebbe uno spettacolo bello. Sarebbe bello perdersi nell’universo dell’attimo, restare sospesi nel nulla e ammirare da quella distanza siderale l’abisso sotto i piedi». Raccolgo da terra una foglia: «Vedi questa foglia?». Oreste si gira dalla mia parte e comincia a fissare la foglia che faccio orbitare tenendola stretto al picciolo. A un certo punto la lascio cadere nel vuoto. I nostri sguardi la seguono mentre la foglia atterra leggera come una ballerina. «Siamo continuamente disturbati da mille rumori, da mille pensieri, perciò siamo incapaci di pensare una cosa soltanto». Oreste annuisce. «Chissà quante volte questa foglia è caduta nel vuoto!». Dal salotto sentiamo Ornellona strillare e inveire contro il televisore. Ripete continuamente una sola parola: «Astronzi! Astronzi!». Pare che ce l’abbia con qualche politico: «Pure le televisioni ci volete togliere! Ma andateci voi sul satellite!». Ornellona litiga sempre con mia zia per questioni politiche. Mia zia non sopporta l’idea che quella “palla di grasso” pensa solo a rimpinzarsi di Tv commerciale. Ornellona la definisce una “statalista”, e ogni volta che pronuncia questa parola s’aspetta che tutto lo Stato crolli sulla sua testa per seppellirla una volta per sempre. Ornella, dice mia zia, non ha nessuna idea politica, la sua unica preoccupazione è che non diminuiscano i programmi televisivi. Tutto qua. In realtà, sostiene mia zia in modo dogmatico, a modo suo è un’anarchica come me. Quando la zia mi fa questi discorsi, la guarda perplesso. Non so se sono più sorpreso di vedermi appiccicata questa etichetta o di vederla appiccicata alla figura di Ornellona. Un po’, forse per via di quei discorsi che ogni tanto mi sente fare di sfuggita sul potere, si sarà fatto quest’idea. Ma Ornella? Per quanto ce l’ha con gli statalisti, ha un timore indicibile per tutte le forme di autorità riconosciute; per ogni uniforme indossata fosse anche quella dei frati francescani. Davanti a una divisa si fa piccola piccola e non osa neanche fiatare. Se c’è una multa da pagare, la paga! Mai si sognerebbe di contestarla. Secondo mia zia, il timore verso qualsiasi forma di autorità è sintomo di anarchia: si è anarchici proprio a causa di questo timore. Chi comprende che ognuno di noi è un’autorità nel suo campo non ha più timore. A volte mi è difficile seguire i sillogismi di mia zia. Io m’arrendo facilmente, e preferisco subito darle ragione. A lei questo mio modo di fare non piace: mi dice che se ho una convinzione è mio dovere sostenerla sino in fondo. Poi quando le rispondo ch’io non ho nessuna convinzione, lei finisce con l’arrabbiarsi ancora di più. «Soltanto i vigliacchi non hanno convinzioni!». Ebbene? Che male c’è ad essere vigliacchi? Se poi le faccio notare – senza convinzione però, giusto per il gusto di stuzzicarla – che se al mondo ci fossero stati più vigliacchi e meno eroi, forse avremmo avuto qualche guerra in meno e qualche vita in più, lei diventa addirittura paonazza; mi punta il suo indice vicina alla faccia, raccoglie tutte le sue energie e mi dice digrignando i denti: «È grazie ai tipi come te, come quella “palla di grasso” e come quello scemo con il quale parli tutti i giorni che le dittature trionfano!». Io non ribatto! D’altro canto a che servirebbe? Mi piacerebbe rispondere che di solito se le dittature trionfano è perché ci sono troppi uomini e donne che hanno delle convinzioni per le quali sono disposti a morire. Ma, a dire la verità, a me idee del genere arrivano sempre tardi, e, in ogni caso, credo che in parte abbia ragione mia zia e in parte ho ragione anch’io. Insieme ai pasti, mia zia divora anche le notizie del telegiornale, perciò non mangiamo mai insieme. Io non sopporto l’idea di mangiare ascoltando qualcuno che mi elenca con una faccia impassibile le disgrazie del mondo o le sue illusioni. Mangiamo in orari diversi. Quando finisce il telegiornale, si versa il suo solito digestivo serale e trasloca in salotto. A quel punto è il segnale che la cucina è sgombra e io comincio a cenare. Se il suo programma ritarda, ritorna in cucina a parlare. Io mangio in silenzio, lei mi racconta qualcosa della sua giornata. Poi, d’un tratto s’accorge che la mia mente è altrove, ma a quel punto la sigla l’ammalia e se torna di corsa in salotto. Io e Oreste guardiamo quella foglia caduta a terra. Ogni tanto una leggera brezza la culla, la percuote, la solleva; ma poi come se le mancassero le forza ricade a terra. Osserviamo questa sottile lotta tra la foglia secca e il venticello: quest’ultimo vorrebbe trascinarla, portarla via, allora la lusinga, l’accarezza; chissà quante belle promesse le fa! Mondi nuovi, mondi sconosciuti, altri paesaggi, nuvole di mille colori, cieli splendidi. La foglia sembra stanca, incapace di volare; e poi, si domanderà, per fuggire dove? Una volta che si è staccata dal ramo, dove un giorno respirava felice, ascoltava i canti degli uccellini, seguiva con trepidazione ogni sorgere del sole e con altrettanta trepidazione lo vedeva spegnere, quando viveva insieme a tutte le sue sorelline e l’albero era la sua grande madre, a che serve andar via? Un posto vale l’altro; almeno qui, nel suo giardino, può ancora vedere l’albero maestoso che l’ha fatto nascere, ascoltare i suoni della sua vita. Lasciami, venticello, lasciami morire in questo giardino, sembra dire la fogliolina nel suo dondolio. Quella foglia che si culla nel suo destino mi fa venire in mente un episodio della mia infanzia. Dovevo avere cinque o sei anni. Non so che malattia avessi, ma mi ricordo che dovevo sottopormi a delle punture. A me soltanto la vista dell’ago mi terrorizzava. Né mia madre, né la sua amica, né la figlia della sua amica riuscivano a tenermi fermo per farmi la puntura. Era diventato proprio un bel problema! Se io mi irrigidivo troppo c’era il rischio che l’ago si spezzasse nelle mie carni. Ma io avevo assolutamente bisogno di quelle cure! Mia madre si disperava: ogni volta che mi trascinava in quella casa sembrava che portasse un agnello al macello. Finché un giorno la ragazza delle punture s’accorse che a me piaceva un cagnolino finto che se ne stava al centro del letto. Era un barboncino nero, aveva una linguetta rossa, gli occhietti, anche se di plastica trasparente, erano vispi, vispi. Era fatto a grandezza naturale. Io non avevo mai avuto un cucciolo vero, e m’innamorai di quel cucciolo di pezza. La figlia dell’amica di mia madre scoprì il mio segreto, forse aveva intuito il mio trasporto quando mi avvicinavo timidamente verso di lui. E così feci un patto: se fossi stato buono, alla fine delle decine e decine di punture me lo avrebbe regalato. Da quel momento ogni puntura era diventata per me un appuntamento con la mia amante di pezza. La magia dell’amore aveva fatto sparire come d’incanto ogni terrore e ogni paura; anzi, no, aveva fatto ancor di più, poiché io avevo la possibilità di stare con la mia amante soltanto nei momenti in cui la ragazza mi faceva la puntura, io aspettavo con ansia che s’arrivasse al giorno dopo e potessi stringere di nuovo al petto la mia amata cagnolina di pezza. L’attesa era dolce, guardavo le nuvole in cielo, avevano il muso della mia cagnolina, ed era come se da lassù mi parlasse. Ogni volta che terminavo una puntura, chiedevo alla ragazza quante ancora ne restassero per potermi congiungere alla mia amata. Non credo che all’epoca sapessi contare, però ogni volta vedevo le fiale diminuire nella scatola. Ero diventato davvero un bravo bambino, ubbidiente e docile; se fossi stato un adulto si sarebbe detto che l’amore, che quell’incontro dagli occhi vispi e attraenti mi aveva trasformato; ma ero un bambino, un bambino che credeva alle promesse, un bambino che non immaginava che al mondo esistessero inganni. «Ora non chiedermi, Oreste, come andò a finire questa storia, perché tu hai capito che se si è incisa così profondamente nella mia memoria, e se per tanti e tanti anni l’ho conservata intatta, e se oggi non ho più fiducia nelle promesse del mondo, vuol dire che è triste conoscere a quell’età una delusione terribile. Ma il lato comico di questa storia, Oreste, non sta nel fatto che gli adulti non sono mai stati sfiorati dall’idea di essersi comportati in modo crudele. È facile giudicarli così e dire quanto sono insensibili a negare un fantoccio di pezza a un bambino! Ma si è crudeli quando s’avverte su di sé il dolore della vittima; quando, invece, crediamo che la nostra vittima non senta nessuna sofferenza, non avverta nessun dolore, noi non pensiamo affatto di essere crudeli, e se crediamo di non essere crudeli non è perché siamo insensibili, ma perché crediamo che lo sia la vittima. Secondo te, Oreste, come può un adulto credere che un bambino possa provare un’infatuazione o un amore? Questi non sono sentimenti che un bambino può provare, così come crediamo che questa foglia non può provare nostalgia di quando era attaccata all’albero. Allo stesso modo in cui, quando giorno dopo giorno finisce per essere calpestata sotto i nostri piedi, non crediamo di essere insensibili alle sue sofferenze, semplicemente non ci accorgiamo nemmeno che esiste. Spesso nella nostra vita, Oreste, a volte siamo foglie calpestate, altre volte siamo i piedi che inconsapevolmente calpestano». Oreste ha un figlio, Dino, ha ventuno anni, è un ragazzo carico di vitalità; due volte a settimana va in palestra a «investire sul suo corpo», porta sempre magliette e pantaloni attillati, servono a mettere meglio in risalto i suoi muscoli; non è un bel ragazzo, ma Ornella ne è completamente innamorata, e per lui è disposta a fare qualsiasi sacrificio. Negli occhi di Dino leggo un disprezzo per il padre. È il disprezzo di una gioventù verso una generazione che non sa rischiare. Non gli manca nulla: ha una macchina, cellulari, è iscritto alla università, ha una ragazza, non lavora, ha sempre capi firmati, scarpe alla moda, va in palestra, in pizzeria con gli amici. Non fuma e non beve per non rovinarsi il corpo. Eppure, disprezza il padre, lo disprezza perché è una persona onesta. Ma è troppo onesto perché è un pavido, ed è un pavido perché non è furbo; i padri degli amici che frequenta è gente senza scrupoli che ci sa fare e che sa fare un sacco di soldi. I suoi amici in vacanza vanno in posti esotici, lui deve accontentarsi della solita Sardegna; i suoi amici hanno macchine di grossa cilindrata, lui deve accontentarsi di un’utilitaria; i suoi amici frequentano donne di una certa classe, lui deve accontentarsi di quella proletaria di Irene. I suoi amici portano le loro ragazze nei migliori ristoranti, lui la sua ragazza può portarla solo in trattoria. Ogni volta che parla è per rimarcare ai genitori che lui ha qualcosa di meno o che gli altri hanno qualcosa di più. Una volta ho sentito Oreste fargli un discorso. Era serio quel giorno e gli parlava di qualcosa che i genitori dei suoi amici non hanno: la dignità. Dino, come se qualcosa lo avesse solleticato, si mise a ridere, a ridere tanto: «A pa’, ma tu al giorno d’oggi che ci compri con la dignità?». «Il rispetto di me stesso», gli rispose serio il padre. Nel suo disprezzo sono compreso anch’io. Per gli altri, io e Oreste siamo due scemi, ma per Dino siamo due perdenti o due inetti. A sentir lui è la nostra inettitudine che ci ha uniti. Per me, che nella vita non faccio altro che collezionare etichette, una in più, una in meno non fa nessuna differenza. Nei miei confronti, oltre al disprezzo, vi leggo anche un odio: come Ornella, lui pensa che il padre sia completamente sotto il mio influsso, che io sono il suo istigatore. «Certo, certo, tu e il tuo amico un giorno vi mangerete un panino di rispetto con ripieno di dignità! A pa’, lo vuoi capire che i tempi da Adamo ed Eva non sono cambiati, e che da che mondo e mondo il lupo mangia l’agnello?». Ornellona è sempre pronta a fare da spalla al figlio: «A Di’, faglielo capire tu a stu’ scimunito come si vive oggi. Oggi con un stipendiuccio da impiegato non ci campi. Se non facessi io la commessa, vorrei sapere come farebbe tuo figlio a studiare!». Oreste non trova mai nulla da ribattere. Certo loro vorrebbero che ogni tanto anche lui, come fanno i suoi colleghi, si facesse scivolare qualche bustarella in tasca. Ogni tanto, appunto, mica lo pretendono ogni volta, perché poi si rendono conto che Oreste, non essendo un uomo furbo, magari sarebbe persino capace di farsi scoprire come un allocco. Dicono, disonesto, ma non in maniera eccessiva; quel poco che possa bastare a Dino a farlo figurare un po’ meglio. Ecco perché ad Oreste piace quando parlo di foglie, di alberi, delle cose semplici, e m’ascolta in silenzio; ecco perché ad Oreste piace quella birra di sera in giardino; neanche sua moglie, suo figlio sono in fondo crudeli, e non sono neanche insensibili, semplicemente non avvertono il dolore di Oreste. Mia zia ha classificato la madre e il figlio come due tiranni, ma la sua è più una difesa ideologica: Ornella e Dino sono i prodotti della tv commerciale, della società dei consumi e sfruttano quel pover’uomo, che poi rimane comunque uno scemo a lasciarsi sfruttare da quel sanguisuga del figlio che vive senza una briciola di ideali, educato all’assenza di valori. «Ma perché, zia, dici che Dino non ha valori? secondo me, ne ha sin troppi che non riesce neanche a soddisfarli tutti!». «Ah, sì!», ribatte lei con aria di sfida: «E quali sono questi valori». «Per cominciare, ad esempio, ha il valore della bellezza del corpo». «La bellezza del corpo! E, secondo te, è un valore?». «Aspetta, zia, non ho ancora finito l’elenco; perché poi dobbiamo aggiungere il valore della ricchezza, del successo, del primato, del fascino». «E tu, proprio tu, definisci queste cose effimere dei valori?». «Come li definisco io ha poco importanza, se li condivo ne ha ancor meno. Non è che i valori di Dino sono diversi dai tuoi, zia?». «Sei il solito anarchico», sentenzia mia zia, e la discussione finisce. Torniamo a fissare di nuovo la foglia, la sera è mite ed è un piacere rimanere in giardino a bere un altro sorso di birra. «Sai, Oreste, l’altro giorno mentre leggevo un romanzo mi sono messo a riflettere sulla memoria. Nella vita compiano migliaia di volte gli stessi gesti quotidiani, tanto da non saperli distinguere l’uno dall’altro. Quante volte Oreste siamo rimasti qui fuori a berci una birra di sera? Quando la nostra memoria cerca di distinguere quelle sere, ci sembrano tutte uguali, come se tutte quelle sere si trasformassero in un’unica sera; eppure, io ricordo in modo distinto le cose che ci siamo dette in ogni sera, anche se non ti saprai dire in che giorno è avvenuto, perché mi sfugge ogni collocazione temporale. Nei romanzi il tempo scorre sempre in modo lineare, si va avanti e indietro, ma poi ogni cosa scorre nel suo flusso temporale, si snoda nel suo groviglio, abbiamo sempre la percezione di ciò che succede prima o di ciò che succede dopo. La vita, invece, non è così. Certo, la nostra vita è scandita da episodi particolari di cui più o meno riusciamo a trovare le loro coordinate temporali, ma la gran parte del tempo trascorso va a formare un’unica dimensione. Tu Oreste ti ricorderai il tuo primo giorno di lavoro, il giorno in cui ti sei sposato, la nascita di tuo figlio, però sono sicuro che quando vuoi distinguere un giorno trascorso nel tuo ufficio per quanti sforzi tu faccia, a meno che non sia successo qualcosa di particolare, qualcosa che ti ha provocato un’emozione, tutti i giorni t’appaiono alla mente come un unico giorno». Osservavo Oreste mentre tentava di distinguere un giorno di lavoro da un altro, e poi contraendo le labbra annuire con il movimento del capo. «M’è venuta in mente questa idea mentre leggevo un romanzo di Hermann Hess, Demian; per associazione di idee ho cominciato a pensare ad Ada, forse perché la madre di Demian si chiama Eva, un nome breve come quello di Ada, e mi era venuto il pallino di scrivere un breve romanzo sulla nostra storia d’amore. Ho cominciato a riflettere sugli episodi più significativi del nostro amore, a un certo punto cercavo di pensare alla nostra vita quotidiana, e la cosa strana è che non riuscivo a distinguere un giorno da un altro. Sulla pagina bianca volevo rivivere quei giorni, trasformare i ricordi in parole, le immagini in suoni. M’era successo la stessa cosa di quando una volta, dopo la sua morte, con la memoria volli ritornare alle immagini vissute insieme a mia madre. Tutti quei momenti vissuti insieme, ad esempio, la sera, quando ci mettevamo a mangiare vicino al caminetto, nella mia mente formavano una sola e un’unica immagine, era come se non centinaia di volte avessimo mangiato insieme vicino al caminetto, ma soltanto una volta, un’unica volta e che quell’unica volta si fosse stampata per sempre nella mia mente. Sai, Oreste, credo che il rituale sia proprio questo: trasformare tanti momenti diversi in un unico istante! Forse è questo il vero miracolo della vita, quel miracolo che andiamo sempre a cercare altrove, in luoghi diversi, distanti. Nessuno vede che il vero grande miracolo della vita è quel passo che ci permette di fare quello successivo, quella parola sospesa nel vuoto che permette di pronunciare quella successiva. E quando con la mente andiamo alla ricerca dei nostri passi e delle nostre parole noi troviamo sempre quell’unico passo e quell’unica parola come se mai ne avessimo compiuti altri o pronunciate altre». Oreste annuiva sorridendo, e il suo annuire sorridendo m’apparve in quella sera luminosa come un miracolo!