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L’Afghanistan dopo il ritiro nel 2014: il ruolo delle potenze vicine

Creato il 11 gennaio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’Afghanistan dopo il ritiro nel 2014: il ruolo delle potenze vicine

Lo scorso 5 Dicembre, durante il meeting con i colleghi della NATO a Bruxelles, il segretario di stato USA Clinton ha ribadito come rispettare l’impegno di donare all’Afghanistan 4,1 miliardi di dollari sia cruciale per la sicurezza internazionale, specialmente in previsione del definitivo ritiro delle truppe del contingente internazionale previsto per la fine del 2014. Anche il ministro degli esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha ricordato alle nazioni europee già prostrate dalla crisi che rispettare l’impegno preso con il governo di Kabul rientra negli interessi europei.

Queste dichiarazioni giungono lo stesso giorno in cui il rapporto del CPI (Corruption Perceptions Index) mette l’Afghanistan ai primi posti tra le nazioni più corrotte del mondo, insieme a Somalia e Corea del Nord; il New York Times stima che su 8 miliardi di dollari donati al Paese per la sicurezza e la ricostruzione, almeno 1 miliardo vada sprecato a causa della corruzione. Tuttavia tagliare i fondi non è un’opzione praticabile: impoverirebbe gli strati della popolazione già vessati dalla guerra, e incoraggerebbe un ulteriore sviluppo del narcotraffico e di altre attività illecite per compensare la perdita degli aiuti internazionali.

Quali sono i possibili scenari che si prospettano al Paese una volta che le truppe dell’ISAF si saranno definitivamente ritirate?

In data 8 Ottobre l’International Crisis Group (ICG) ha pubblicato un rapporto che non delinea certo un quadro ottimistico dei possibili sviluppi post-2014. Come sottolineato dal rapporto e dai vari osservatori il 2014 sarà un anno cruciale per il Paese: oltre al ritiro definitivo delle truppe previsto per Gennaio, infatti, scadrà il mandato dell’attuale Presidente Hamid Karzai. Non è ancora chiaro se il Presidente intenda farsi da parte o forzare le istituzioni per prolungare il mandato; ciò che è certo è che già dalle passate elezioni del 2009, le cui irregolarità sono state condannate all’unanimità dalla comunità internazionale, l’attuale leadership ha perso popolarità e il Presidente è spesso accusato di nepotismo e corruzione. Per ora i maggiori partiti d’opposizione sono la Coalizione Nazionale dell’Afghanistan del Dr. Abdullah (precedentemente nota come Coalizione per il Cambiamento e la Speranza), principale sfidante di Karzai alle elezioni del 2009, e il Fronte Nazionale Afghano1. Entrambi i partiti dell’opposizione puntano alla decentralizzazione amministrativa in contrapposizione con la linea centralizzatrice dell’attuale leadership, e non è chiaro se intendano allearsi o meno in vista delle elezioni del 2014.

A causa della drastica riduzione dei finanziamenti provenienti dall’estero (meno di 5 miliardi di dollari, contro i più di 100 miliardi solo dagli USA nel 2011)2 il Paese si troverà a dover fronteggiare una crisi economica che avrà come conseguenza, con tutta probabilità, un ulteriore incremento della produzione di oppio (che già costituisce il 9% del PIL della nazione, secondo i dati dell’ Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine; l’Afghanistan è attualmente il maggiore produttore mondiale d’oppio). Altro fattore di instabilità, naturalmente, sarà la reazione dei gruppi talebani al ritiro delle truppe. Se in quasi tredici anni di guerra le forze congiunte dell’ISAF con quelle dell’Afghan National Security Forces non sono riuscite ad eradicare i ribelli dal territorio, difficilmente le truppe governative lasciate a se stesse potranno registrare qualche successo. Nel peggiore dei casi ipotizzabili i Talebani potrebbero riprendere Kabul e il Paese ricadrebbe nella guerra civile; essi godono ancora di una certa popolarità, specialmente nel sud del paese, ed hanno solide basi e finanziamenti dal Pakistan.

Tuttavia, nonostante cerchino di mantenere una unità di facciata, il fazionalismo impera anche tra i ranghi dei Talebani. Nel migliore dei casi uno dei maggiori gruppi di ribelli (i Talebani con base nella città pakistana di Quetta, il cui leader è il Mullah Omar; il network Haqqani oppure il partito islamico Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar), verrà incluso nelle trattative e gli altri gruppi seguiranno3; a questo sembrano puntare soprattutto gli USA, che già dal Gennaio 2012 hanno incontrato in Qatar i portavoce del leader Omar – per quanto ufficialmente si trattasse di trattative per la liberazione di prigionieri talebani detenuti a Guantanamo4. Le richieste degli USA per l’inclusione nelle trattative di pace sembrano per ora inaccettabili ai gruppi di ribellione: rinuncia alla lotta armata, rispetto della costituzione e delle minoranze etniche e la completa cessazione dei rapporti con Al Qaeda.

Il ruolo degli Stati confinanti: Pakistan, Iran, Cina

Pakistan

La Repubblica Islamica del Pakistan è stata meta dei profughi afghani sin dall’occupazione sovietica; base dei Mujaheddin allora e, attualmente, di quasi tutti i gruppi di opposizione armata al governo di Kabul. I pashtun sono la seconda etnia del Paese (15,42% della popolazione) e vivono stanziati principalmente lungo la Linea Durand, che segna il confine tra le due nazioni. I rapporti tra il governo di Islamabad e Karzai sono sempre stati tesi, anche all’epoca della permanenza del Presidente afghano nella città di Quetta. Ora il Pakistan deve far fronte anche alla divisione dei Talebani in due fazioni: i filo-pakistani (la Shura di Quetta, il network Haqqani e Hezb-e-Islami) e gli antipakistani (Tehrik-e-Taliban Pakistan – TTP); questi ultimi rappresentano la maggiore minaccia interna al Paese, e neanche l’influenza di capi carismatici come il Mullah Omar li ha resi malleabili al compromesso con lo Stato. Per quanto riguarda le relazioni con Washington, una volta ritirato il contingente l’interesse degli Stati Uniti per il Pakistan andrà inevitabilmente scemando. Considerando che il Pakistan fa affidamento sugli aiuti esterni, ed in particolare proprio su quelli degli Stati Uniti (che dal 2002 hanno sborsato oltre 20 miliardi di dollari in aiuti economici e militari), e che la Cina non sembra avere intenzione di sostituirsi ad essi come patrono della nazione (ed anzi il governo di Pechino guarda con preoccupazione alla radicalizzazione dei movimenti degli Uiguri in Pakistan)5, il post-2014 si rivelerà problematico anche per una nazione che, ospitandoli sul suo territorio, può svolgere un ruolo fondamentale di mediazione nelle trattative con i Talebani.

Iran

Attualmente il ruolo dell’Iran nella mediazione con l’Afghanistan risente fortemente della tensione tra Tehran e la comunità internazionale riguardo al programma nucleare iraniano6. A questo proposito l’Iran teme anche un attacco israeliano, e perciò trova preoccupanti soprattutto i lavori di realizzazione della base aerea di Shindand, progetto in cui gli Stati Uniti hanno investito circa un miliardo di dollari e che ospiterà anche un contingente statunitense: abbastanza, quindi, da costituire una minaccia nei confronti dell’Iran. Per questo il governo di Tehran sta facendo enormi pressioni su Karzai affinchè non venga siglato un accordo di partenariato strategico USA-Afghanistan. Considerando che l’impegno occidentale nella nazione andrà inevitabilmente scemando, la leadership di Kabul potrebbe considerare favorevole implementare i rapporti con l’Iran, che possiede il petrolio e il gas di cui gli afghani avrebbero bisogno – nonchè lo sbocco sul mare. Tuttavia non bisogna dimenticare che l’Iran è una potenza sciita (come la minoranza etnica degli hazara), anti-talebana e anti-americana e se in Afghanistan dovessero riaccendersi fiammate di ribellioni legate all’etnia (i pashtun sono in maggioranza sunniti conservatori) le due potenze si troverebbero su fronti opposti.

Cina

La Cina condivide con l’Afghanistan 76 km di confine; la provincia in questione è la Regione Autonoma dello Xinjiang, da sempre culla di movimenti separatisti di matrice islamica portati avanti dall’etnia uigura, che rappresenta il 46% della popolazione della regione. Questo dato da solo basterebbe a spiegare perché non è sicuramente negli interessi del governo di Pechino un rafforzamento del movimento talebano, che potrebbe fomentare ulteriori insurrezioni nella regione; ma questo non è il solo motivo per cui la stabilità politica dell’Afghanistan rientra negli interessi cinesi. Fino ad adesso Pechino si è tenuto fuori dagli affari politici della nazione, contando sul fatto che le forze dell’ISAF garantissero la sicurezza alla nazione – e conseguentemente i suoi investimenti: la Cina è infatti il maggiore investitore estero in Afghanistan7. Nel 2007 ha vinto l’appalto per sfruttare il maggiore deposito di rame del Paese, la miniera di Anyak, situato a sud di Kabul; inoltre, nel 2011 la China National Petroleum Corporation si è aggiudicata il contratto della durata di 25 anni per lo sviluppo di stabilimenti petroliferi nel bacino dell’Amu Darya. E’ quindi negli interessi di Pechino salvaguardare la stabilità nel Paese, e le robuste relazioni diplomatiche sino-pakistane potrebbero essere una valida risorsa in quest’ambito.

Russia

La Russia, pur non confinando con l’Afghanistan, ha interesse a contenere una nuova ondata di fondamentalismo islamico nel momento in cui tale ondata potrebbe fomentare nuovi disordini in varie repubbliche ex-sovietiche, come l’Uzbekistan (dove è presente il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, allineato con Al Qaeda) e il Tajikistan. In questo contesto il Kirghizistan ha annunciato che la base aerea di Manas, centrale per le operazioni militari statunitensi in Afghanistan, dopo il 2014 tornerà ad essere esclusivamente ad uso civile – ufficialmente per non essere considerata un bersaglio nel quadro di una possibile crisi iraniana8. Queste decisioni portano alla luce il fatto che la presenza di basi americane sul territorio è considerata dalle nazioni dell’Asia Centrale un possibile fattore d’instabilità per l’equilibrio post-2014.

Conclusioni

Nel fare previsioni sui possibili scenari successivi al ritiro del contingente internazionale dall’Afghanistan non si può prescindere dall’analisi del ruolo delle potenze regionali, confinanti e non; è ad esse, infatti, che il Paese si rivolgerà man mano che l’influenza occidentale andrà inevitabilmente scemando per fronteggiare la crisi economica, istituzionale e di sicurezza interna che si prepara a fronteggiare.


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