“L’Afghanistan, il sequestro, il ritorno”

Creato il 21 agosto 2012 da Kashgt

MINERVA n. 315 agosto 2012 Cultura/Libri pag. 1 & 7

Racconta le tappe della vicenda nel libro “Afghanistan CameraOscura”
Gabriele Torsello: “L’Afghanistan, il sequestro, il ritorno”
 di Francesca Ceci

E’ stato il primo giornalista italiano rapito in Afghanistan. Gabriele Torsello, detto Kash, ha realizzato  reportage in alcune delle zone più calde del pianeta, dal Kashmir al Nepal, passando per India Afghanistan dove viene rapito il 12 ottobre 2006 e rilasciato dopo 23 giorni di prigionia che racconta così nel suo ultimo libro. 5 anni di lavoro e indagini, 320 pagine tra fotografie, interviste e testimonianze inedite che ripercorrono l’Afghanistan dal Kyber Pass a Kabul, Khost, Badakshan, Kandahar, Lashkar-Gah e Musa Qala. 

12 ottobre 2006 – 3 novembre 2006, in mezzo 23 giorni di prigionia di cui parli nel libro Afghanistan CameraOscura. È proprio di questi giorni un serrato botta e risposta tra te e Emergency.
Perché questa polemica?

“Ci sono diversi punti non chiariti che ho voluto approfondire nel libro, fatti diversi da come sono stati raccontati dai media. Ho cercato più volte di incontrare i responsabili di Emergency per chiarire i miei dubbi e non mi è stato concesso, ho parlato con l’addetto alla comunicazione e con Cecilia Strada subito dopo il sequestro, ma fu un incontro molto breve. Ero a contatto con loro, poi accadde un episodio: fu sequestrato Mastrogiacomo, il giornalista di Repubblica, in quell’occasione Gino Strada prese le difese di Hanefi – l’uomo di Emergency arrestato dopo il sequestro – sostenendo che era così affidabile che il governo italiano lo aveva incaricato di portare il riscatto per Torsello. I giornali mi chiamarono per avere dettagli, io dissi quel che sapevo e cioè che per il mio rilascio non si era pagato riscatto e li invitai a chiamare Gino Strada perché anche io volevo saperne di più. Dopo queste dichiarazioni i rapporti con Emergency si sono fatti più tesi, mi hanno rimproverato di aver messo in dubbio la parola di Strada. Io non ho niente contro nessuno, ma non sapevo del riscatto, mi sono sentito di rimandare a loro. Comunque, i rapporti si interruppero e siamo arrivati ad oggi.
Secondo loro non c’è bisogno di fare chiarezza, secondo me ci sono ancora dei punti da chiarire, a me dispiace questa tensione proprio con Emergency. Sicuramente un intervento di Gino Strada avrebbe potuto sciogliere tanti miei dubbi”.

Rispetto al tuo sequestro che idea ti sei fatto? Perchè proprio tu?

“Credo sia stato tutto pianificato e organizzato per bene, non è stato un sequestro casuale, non mi sono trovato coinvolto nel “classico” sequestro di gruppo e diversi elementi lo provano. Il sequestro è avvenuto su un autobus di linea, cosa mai accaduta fino ad allora, perché sugli autobus ci sono più persone e la cosa è meno gestibile, in questo senso è preferibile la macchina.
Quando è stato fermato l’autobus i sequestratori sono venuti da me, esattamente dove ero seduto. Avevo acquistato il biglietto il giorno prima, c’era anche il posto assegnato, sono venuti a colpo sicuro. Non posso neanche dire che mi hanno scambiato per occidentale perchè per come ero vestito assomigliavo moltissimo ad un afgano. Poi c’è un altro particolare: i documenti, cioè, in caso di sequestro, nel 99% dei casi i sequestratori prendono tutti i documenti del sequestrato, tutto ciò che può dimostrare l’identità di chi hanno preso. Nel mio caso presero solo la tessera da giornalista sulla quale c’erano dati molto generici, il passaporto me l’hanno lasciato, me lo hanno tolto la notte prima di rilasciarmi. Altra anomalia, non mi hanno né filmato né fotografato. Sapevano già chi ero, chi avevano tra le mani. Probabilmente mi hanno lasciato lavorare nell’Helmand perché ero l’unica macchina fotografica presente sul territorio e poi hanno voluto vedere cosa avevo fatto”.

In quei 23 giorni hai mai avuto paura per la tua vita o avevi la sensazione che saresti stato rilasciato da un momento all’altro?

“All’inizio pensavo avessero commesso un errore. Questo lo dico perchè non sono andato illegalmente in certe zone. Prima di andare in Afghanistan ho informato l’ambasciata afgana e italiana, durante la mia permanenza informavo di volta in volta le varie autorità dei paesi che visitavo perché in questi posti non basta l’autorizzazione del governo centrale ma devi chiedere autorizzazione in ogni luogo che visiti, a scaletta chiedevo autorizzazione al governatore, alla polizia, a volte anche all’Isaf e alla Nato, altre agli anziani dei villaggi, i Taliban mi hanno addirittura scortato quando sono entrato a Musa Qala. Ho avuto problemi all’inizio con il governatore dell’Helmand e con le forze di polizia perché quando hanno visto un uomo con la macchina fotografica vestito da afgano si sono insospettiti e hanno pensato che fossi un Mujaheddin o uno di Al Qaida considerando che Massoud (leader dell’Alleanza del Nord e combattente contro il regime dei Taliban, ucciso il 9 Settembre 2001, ndr) fu ucciso da due terroristi travestiti da giornalisti, gli afgani sono prevenuti, specie in certe località.
Questo per dirti che tutti sapevano quello che facevo e mi avevano autorizzato, se non avessero voluto non mi
avrebbero autorizzato. Perciò pensavo: prima mi autorizzano e poi mi sequestrano? Speravo in un errore, ma poi non mi rilasciavano e ho capito che non era uno sbaglio, mi hanno minacciato tante volte e alla fine per calmarmi avevo accettato la morte”.

L’Afghanistan è il primo produttore mondiale di oppio. Analizziamo questo dato rispetto alle dinamiche del conflitto: che quadro ne esce fuori?

“Partiamo dal fatto che a livello mondiale i pilastri dell’economia sono tre: petrolio, produzione di armi e narcotraffico, pilastri che producono contanti e quindi investimenti.
E li troviamo proprio in zone ostili, prendi la guerra in Iraq dove la prima cosa che si è fatta con le forze occidentali è stata quella di tutelare i pozzi di petrolio. Abbiamo poi l’industria bellica che produce economia, posti di lavoro, soldi, armi che prima o poi devono essere utilizzate perché altrimenti le ordinazioni si esauriscono. E poi abbiamo il narcotraffico, un’industria che produce tonnellate di bigliettoni, basti pensare che negli ultimi anni ci sono stati più morti in Messico e in Colombia che in Afghanistan. E in Afghanistan c’è l’oppio, è il primo produttore e distributore mondiale ed è successo negli ultimi anni. L’Helmand è la regione in cui si produce più oppio e se ne esportano diverse tonnellate, sono soldi che non servono solo ai locali o ai Taliban per acquistare armi, ma vengono distribuiti in diverse fasce: una parte finisce nelle mani dei Taliban, un’altra va a finire nello smercio e nel traffico delle sostanze e la fetta principale viene inserita nel sistema bancario, quindi soldi liquidi che diventano ricchezza nazionale e vengono utilizzati per investimenti in Afghanistan o acquistare merci dall’Occidente.
Sono soldi, tanti soldi. Prendi l’oppio, trasformalo in soldo e vedrai che nessuno si fa tante domande. Ci sono vari dossier pubblicati da esponenti delle Nazioni Unite dove ci sono le cifre di questo traffico di soldi prodotto dall’oppio e da altre sostanze, un’economia molto rilevante”.

Afghanistan e donne: a che punto siamo?

“Alcuni miglioramenti ci sono stati, ma si va molto a rilento, la donna continua a essere strumentalizzata in un modo o nell’altro. Quando è crollato il regime Taliban le donne non dovevano più portare il burqa, ma anche con il nuovo governo, si sono trovate davanti ad un’imposizione, opposta a quella dei Taliban, volto scoperto, tacchi, abiti all’Occidentale. La donna deve poter decidere, non deve decidere il regime al suo posto, ha bisogno di emanciparsi, sentirsi parte attiva.
Ci sono donne che vogliono indossare il burqa, io ne ho fotografate tante, alcune lo indossavano e po arrivavano in luoghi pubblici come lo stadio, lo toglievano e guardavano la partita o i giochi.
La donna deve scegliere cosa fare senza restrizioni e ordini vari, invece resta ancora uno strumento attraverso il
quale rivendicare successi politici o meno”.

di FRANCESCA CECI


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