L’âge d’or, regia di Luis Buñuel. Script di Luis Buñuel e Salvador Dalí. Con Gaston Modot, Lya Lys, Max Ernst. 1930.
Certo che la copia che si può vedere su YouTube è meglio di quella rovinatissima, usurata, logorata da decenni di magazzino, e ancora in pellicola naturalmente, che mi sono visto la scorsa settimana qui a Milano allo Spazio Oberdan, nell’ambito di un ciclo Buñuel con molti titoli non così facili da vedere (come Nazarin, Estasi di un delitto, Viridiana), ma purtroppo non integrale. Comunque, meglio l’avventurosa visione in sala di L’age d’or a continuo rischio interruzione e lacerazione pellicola che un’anodina fruizione digitale sul computer di casa: che volete, io sono fatto così (e però non scambiatemi per un nostalgico o un talebano della sala, ben vengano tutti i mezzi e i modi per vedere più cinema possibile). Di questo – è il caso di dirlo – leggendario film si sa tutto, si è scritto tutto. Secondo della collaborazione amical-surrealista dei ragazzi terribili spagnoli Buñuel-Dalí dopo Un chien andalou, L’âge d’or ebbe vita travagliatissima da quando, nel novembre 1930, apparve in un cinema di Parigi. L’aveva prodotto il visconte Charles De Noailles quale gentile cadeau alla consorte viscontessa Marie-Laure, patrona di ogni arte allora estremistica e sperimentalista e vogliosa di épater les bourgeois, signora del salotto più chic e ardimentoso dell’epoca dove si incrociavano Cocteau, Picasso, Balthus, Man Ray e i nostri due mauvais garçons venuti dalla Spagna (un qualcosa di quanto succedeva dai De Noailles lo si può vedere in Opium, il film pazzerello-avantgarde sulla passione tra Cocteau e Raymond Radiguet girato da Arielle Dombasle, presentato lo scorso maggio a Cannes e poi a Milano al Festival Mix). Solo che la vena allegramente sovversivo-anarchica e anticlericale del film suscitò il prevedibile scandalo e l’assalto di gruppi di destra radicale alla sala che lo proiettava. Immediato ritiro, messa al bando, visioni da quel momento difficoltose e clandestine, e l’interdizione alla proiezione pubblica in Francia verrà incredibilmente tolta solo decenni più tardi. Roba da matti. Difficile oggi vedere L’âge d’or senza pensare alla – e farsi infuenzare dalla – sua storia e fama sulfurea che si porta appresso, e però questo, sforzandosi, bisogna fare. Andare oltre le incrostazioni extrafilmiche che gli si sono sedimentate addosso, vederlo come puro oggetto cinematografico. Colpisce subito il suo statuto incerto tra film muto e sonoro, sospeso – era il 1930 – tra modi del vecchio cinema e un cinema ancora da esplorare. Dunque didascalie si alternano a scarne parole e dialoghi, le musiche sono ancora un rullo sonoro come quelle eseguite al piano al tempo dei silent movie, ci son sequenze che rimandano alla pratica dei ruzzoloni comici dello slapstick (il calcio dato al cieco, per dire). Un’incertezza tecnica e anche linguistica che enfatizza ulteriormente il già preponderante lato ludico dell’operazione, il senso di gioco da ragazzi (da ragazzacci), di divertissement mattocco e anche cattivo trasmesso da tutto il film. I due se la prendono durissimamente con la Chiesa, che è il primo bersaglio grosso, con l’esercito, con la borghesia inetta e tronfia, con le istituzioni, e sbalordisce ancora oggi la sfrontatezza e anche la violenza con cui lo fanno. Come sbalordisce una sessualità per niente allusa, anzi mostrata in comportamenti freudianamente perversi come il feticismo. Si comincia con un combattimento tra scorpioni, si prosegue nel rifugio di un gruppo di fuorilegge che ricordano i contrabbandieri della Carmen di Bizet (è il capo è Max Ernst!). Poi prende corpo un qualcosa che, pur con tutti gli inciampi e le derive surrealiste, somiglia a una trama, e son due amanti che non riescono mai a far l’amore, impediti continuamente come sono da un qualche strano evento, apparizioni incongrue, intrusi vari. Già qui Buñuel mette in scena il differimento forzoso del desiderio, l’impossibilità libidica a raggiungere il proprio oggetto e il proprio obiettivo, come molto più tardi in Il fascino discreto della borghesia (e anche in L’angelo sterminatore, se è per questo). Il tanto declamato surrealismo di L’âge d’or ha spesso i tratti della ragazzata, dello scherzaccio beffardo e anarcoide e un po’ goliardico. Insetti fissati su volti impassibili, un ostensorio tra i passeggeri di una macchina, una mucca sul divano, quattro papi con tanto di mitria in testa su una scogliera (e poi ridotti a scheletri in una scena successiva). Gli amanti, in una scena assai laida e spinta, si leccano e mettono in bocca le mani dell’altro fino a, letteralmente, divorarne le dita (e poi vediamo carezze praticate con le mani a dita mozzate). Poi lei, rimasta sola, si butta golosamente e sfrenatamente su una statua leccandone i piedi. Come accadrà anche nel suo cinema successivo, Buñuel assembla e cortocircuita elementi incongrui in una pratica surrealista sì, però mai malmostosamente avanguardistica, sempre divertendosi e divertendoci parecchio. Il finale è sbalorditivo per la violenza con cui, ancora una volta, la coppia Buñuel-Dalí se la prende con la Chiesa, non solo sfiorando la blasfemia, ma andandoci dentro a capofitto. Citando il Sade di Le 120 giornate di Sodoma, si racconta di quattro potenti che, per realizzare ogni loro perversione, si chiudono in un castello e ne combinano di ogni con ragazze e ragazzi ridotti a schiavi sessuali. Bene, quando Buñuell ci mostra il primo dei quattro uscire dal maniero, rimaniamo basiti nel vedere che è una figura modellata su Cristo. Anzi, forse è proprio lui, Cristo. Ultima inquadratura: una croce con attaccate alcuni scalpi di donna. Non ricordo un attacco alla Chiesa altrettanto brutale di questo. Con tutto il rispetto per il signor Buñuel, l’ho trovato disturbante e, ebbene sì, inutilmente empio, e adesso datemi pure del bacchettone se volete.
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