Tutti questi traffici, i doni reciproci, entravano e uscivano da bordo per un’unica via: attraverso un cesto appeso a un pezzo di fune e calato dalla murata, perché né io né loro mai e poi mai contravvenimmo alla regola del primo giorno. Eravamo due Paesi sovrani e confinanti, con la sbarra abbassata fra di noi. Questo diceva la Legge, e noi ci limitammo a passarci i nostri scambi attraverso il filo spinato virtuale che ci teneva divisi. Per dire le cose come stanno, le nostre mani non si toccarono mai.
Finiva l’inverno e io cominciavo a smaniare. La mia prigione mi stava stretta quando annusavo gli odori della terraferma e la brezza mi portava profumo di erba. Mi tenevo attivo ripulendo parti della nave che nessuno aveva mai curato, liberandomi di ciarpame che cominciava a puzzare di stantio, inventariando quanto di utile restava a bordo e che ormai consideravo tutto il mio avere. Ma non bastava a farmi dormire, e le notti senza altra luce che quella della luna, quando c’era, erano sempre più lunghe e febbrili.
Scrissi un biglietto per Maxim. Lo scrissi perché sapevo che certe cose non avrei mai saputo dirle a voce, con quel nodo in gola che mi soffocava. Glielo calai nel cesto senza una parola, e poi rientrai subito sotto coperta lasciandolo lì sul molo con la faccia accigliata e quel ridicolo pezzo di carta in mano.
Mi chiamò forte, due, tre, quattro volte, finché mi decisi a tornare fuori. Mi sentivo malissimo, mi rendevo conto di essere sul punto di perdere ogni dignità, tutto il mio coraggio, qualunque motivo di vivere.
Avevo scritto:
“Maxim ti supplico, fammi fuggire. Una di queste notti io scappo, e tu non cercarmi. Scusa ma non ce la faccio più. Il tuo povero amico Viktor“.
Maxim aveva un’espressione severa, durissima. Agitò il foglio e gridò:
“Cos’è questa idiozia?”
Poi fece una cosa stupefacente: a passi rabbiosi raggiunse l’estremità del molo, scardinò il capanno dei pescatori e ne estrasse una scaletta di legno, che si trascinò dietro col viso paonazzo, e la appoggiò alla fiancata.
“No, cosa fai? – urlai io agitando le braccia.
“Cosa faccio? – ruggì mentre già saliva i primi pioli – Adesso vengo su lì da te e ti do un pugno in mezzo al naso, ecco cosa faccio!”
Era serissimo, deciso e furibondo, lo avrebbe fatto senz’altro, e io ero troppo inerme per reagire.
Non fuggii. Né quella volta né mai.
L’indomani mi sentivo convalescente, ma accadde qualcosa che mi fece guarire del tutto.
Maxim si presentò sul molo nel primo pomeriggio, stavolta seguito da cinque o sei dei suoi scolari: ragazzetti goffi di famiglie povere, con le guance rosse e i piedi irrequieti.
“Ti dispiace – mi chiese tranquillamente, come se il giorno prima non fosse successo nulla – ti dispiace se mi metto qui a fare un po’ di doposcuola a questi piccoli asini?”
Si era portato uno sgabellino, e i discepoli si sedettero per terra come gli indiani, aprendo sulle gambe i loro quadernetti ciancicati. Io assistetti a quell’ora di doposcuola con la commozione e la gratitudine di un figliol prodigo, e imparai anche qualcosa.
Quella notte fu l’ultima inutilmente insonne: la passai a cercare i pezzi di legno adatti e a inchiodarli col martello fino a costruire seggiolini per tutti, e una sedia più grande per il maestro. Alle due del pomeriggio, quando tornarono, li calai uno per uno con la corda e i ragazzi fecero un baccano da non credere. Maxim si pulì gli occhiali con il fazzoletto, o forse gli bruciavano un pochino gli occhi, non so.
(continua)
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