La diffusione del simbolismo vegetale, e in particolare dell’albero, non conosce confini spaziotemporali; ogni civiltà infatti ne ha conosciuto la presenza nei testi sacri, cosmologici, teologici, nel mito e nel folklore, e quindi nell’iconografia. Per gli uomini primitivi l’albero ha avuto un’importanza fondamentale: segnalava la presenza dell’acqua, offriva ombra, forniva il legno che serviva per la costruzione di utensili e abitazioni e per accendere il fuoco, era fonte di nutrimento con i suoi frutti. L’albero diventa sacro in virtù della sua potenza perché manifesta una realtà extra-umana, perché si presenta in una certa forma, porta frutti, si rigenera. E per questo può diventare simbolo dell’Universo, sino a divenire l’Albero Cosmico che si erge al centro dell’Universo e costituisce il punto di intersezione delle tre regioni cosmiche: Cielo, Terra, Inferno. Con queste caratteristiche troviamo il simbolo dell’albero presente in tutte le grandi civiltà, da quelle mesopotamiche all’Egitto, dall’India alla Cina, dalla Grecia a Roma, per assumere nella tradizione giudaico-cristiana la valenza salvifica legata alla Croce.
Addentare il frutto della conoscenza significa “diventare uomini”, rinunciare alla felicità eterna del paradiso per cadere nelle lande del peccato, ovvero della ricerca inesauribile, nel dubbio eterno. La conoscenza è questo, separarsi dall’uno originario per diventare autenticamente uomini. Così infatti Hegel, nel capitolo dedicato al Cristianesimo ne Le lezioni sulla filosofia della storia, interpreta il racconto in questione: “[…] l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, avrebbe perduto il suo stato di assoluta soddisfazione per aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male. Qui il peccato consiste solo nella conoscenza: questa è l’elemento peccaminoso e per causa sua l’uomo si è giocato la felicità naturale. E’ una profonda verità: il male risiede nella coscienza; infatti gli animali non sono né buoni né malvagi, e così il semplice uomo naturale. […] La conoscenza è il peccato originale come superamento dell’unità naturale […]. Lo stato di innocenza, questa condizione paradisiaca, è lo stato animale. Il paradiso è un parco, dove possono rimanere solo gli animali, non già l’uomo. […] Perciò il peccato originale è il mito eterno dell’uomo, è il peccato tramite il quale l’uomo si fa uomo“.
“Noi siamo separati doppiamente da Dio: il peccato originale ci separa da lui, l’albero della vita separa lui da noi“. Questo significa che non possiamo comunque pensare a una condizione di riconciliazione con Dio e l’Eden, in quanto questa riconciliazione sottrarrebbe a noi la nostra coscienza, e ci ridurremmo allo stato animale. Noi restiamo pur sempre “vivi”, mentre Dio non è “vivo” nel senso che attribuiamo noi al verbo. Tornare al paradiso, ripeto, significherebbe annullarsi, svanire.
Ancora Kafka: “Noi siamo peccatori non soltanto per aver assaggiato l’albero della scienza, ma anche per non aver ancora assaggiato l’albero della vita. Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, e ciò indipendentemente da ogni colpa. Noi fummo cacciati dal paradiso, che però non venne distrutto. La cacciata dal paradiso terrestre fu, in un certo senso, una fortuna, perchè, se non ne fossimo stati cacciati, lo si sarebbe dovuto distruggere. Con la nostra cacciata il paradiso fu salvato dalla distruzione. Noi fummo creati per vivere nel paradiso, il paradiso era destinato a servirci. il nostro fine è stato mutato; ma nessuno ha mai detto che sia mutato anche il fine del paradiso. […] Gli uomini non morirono ma divennero mortali, e non diventarono simili a dio ma acquistarono un’indispensabile facoltà di divenirlo. Non morì l’uomo ma l’uomo paradisiaco, essi non diventarono Dio ma acquistarono la scienza divina.“