Mi hanno sempre affascinato gli scrittori che riescono a scrivere romanzi in una lingua acquisita. La costanza, l’impegno che ci hanno messo per diventare scrittori in una seconda lingua, con una consapevolezza estrema di quelle che sono le regole, il suono, le costruzioni sintattiche e oltre a questo la capacità di romperle, quelle regole, di creare a partire da un pugno di parole e segni d’interpunzione, be’, devo ammetterlo, è la cosa che più di tutte mi fa pensare all’esistenza di un demone della letteratura. Questi autori non sono molti e nel mio immaginario si tratta sempre di esuli che per forza di cose hanno dovuto imparare una seconda lingua. C’è Nabokov, tra questi, ci sono Joyce, Kundera, Solzenicyn, Beckett e c’è anche Jerzy Kosinski. Emigrato negli Stati Uniti alla fine degli ’50, Kosinski si è ambientato relativamente presto, diventando da subito un frequentatore assiduo del jet-set e il prototipo dello scrittore mondano per eccellenza. Dietro questa facciata luccicante emersero però misteriosi episodi legati al passato, forse legami con i servizi segreti o altri risvolti ambigui mai del tutto chiariti.
“Tornai a guardare il suo vestito e a un tratto mi resi conto che era un uomo. Il mio stato d’animo mutò di colpo. Sentivo dentro di me una sete di piacere e di abbandono, ma avevo anche l’impressione di essere stato accettato troppo prontamente: a un tratto, tutto era diventato molto prevedibile. Tutto quello che potevamo fare era esistere l’uno per l’altro solo come promemoria dell’io.”
Chi fosse veramente K nessuno lo seppe mai, sappiamo però che decise di porre fine alla sua vita suicidandosi all’improvviso, nel 1991. Possiamo inoltre affermare con certezza è che è stato uno scrittore, uno dei primi a giocare con l’autofiction, uno dei primi a mettere la propria biografia, filtrata dalla scrittura, al centro di una poetica coesa, e tutto questo non parlando direttamente di sé, ma servendosi di allusioni significative e di continui rimandi. Non siamo soliti fare processi alle vite degli autori, né tantomeno esaminare le loro opere attraverso le biografie, ma quando il gioco si fa esplicito risulta difficile non tenerne conto.
“Come l’hai conosciuta?
Abitava nel mio palazzo
Allora è stato un caso?
Non proprio. C’erano alcune centinaia di inquilini nel palazzo – è lungo un intero isolato, sai – e io avevo captato le voci di molti di loro, la sua voce era tra le voci.
Come sarebbe a dire “tra le voci”?
Tra le voci, le loro voci; sai, ho firmato il contratto di affitto quando il palazzo era ancora in costruzione, e potevo gironzolare negli appartamenti non finiti. Allora mi interessavo di elettronica. In tutti gli appartamenti del mio piano e dei due piano sottostanti nascosi una microspia. [...] Nel mio appartamento installai una radio fatta apposta con la quale potevo ricevere le trasmissioni ogni volta che volevo: e ascoltare le loro voci. [...]ùDopo che cominciaste a uscire insieme… le dicesti che l’avevi tenuta sotto controllo?
No.
Continuasti a tenere sotto controllo l’appartamento?
Per qualche tempo sì. Ma smisi presto. Mi sentivo come uno scienziato che ha portato a termine il suo studio: l’esemplare osservato e registrato e analizzato per tanto tempo ha cessato di essere un mistero. Ora potevo manipolarla: era innamorata di me.”
Prendiamo Passi, suo romanzo capolavoro e vincitore del National Book Award nel 1968, da poco edito in Italia da Elliot. Ecco, Passi è tutto incentrato sul concetto di ambiguità: non ci sono collocazioni temporali, non ci sono coordinate spaziali, non ci sono nomi, non ci sono cognomi, non vi è alcuna linearità narrativa. Cosa abbiamo invece? Abbiamo una voce che in prima persona descrive delle situazioni, racconta degli episodi in soggettiva; abbiamo dialoghi in presa diretta, scritti in corsivo; abbiamo un solo intervento di un narratore in terza persone, e si tratta dell’intervento finale, quello conclusivo. Si possono intuire un regime,una guerra, una società capitalistica, una società individualista, delle periferie rurali, dei centri urbani, ma è tutto avvolto in una nebbia di fondo. La mancanza di coordinate, unita all’algida bellezza e trasparenza di una lingua che sembra padroneggiata fin nei minimi dettagli, creano un effetto di fondo che è di spaesamento e di terrore. Gli episodi, tutti narrati con freddo distacco dal protagonista, raccontano storie di individui normali, razionali, che compiono gesti orribili – come a dire che il male è insito nell’animo umano e perpetrarlo non è poi così difficile, basta spingersi un attimo più in là, basta fare quel passo in più che ti fa scavalcare la linea di demarcazione da quello che eravamo soliti chiamare “bene”. L’impressione generale di questi spaccati è quella di un affresco orribile e spaventoso, che ricorda Bosch, che ricorda Lovecraft, in cui l’umanità dell’uomo sembra lontana e persa. Non c’è consolazione, né possibilità di recupero: la violenza e il dominio del male si rincorrono in una sorta di meccanismo perverso, che supera ogni ostacolo e ogni immaginazione. Il lettore osserva tutta questa decadenza, tutto questo sfiorire da una visuale privilegiata, una terrazza sull’orrore raffigurato con sapienza artistica da Kosinski, pezzo dopo pezzo, passo dopo passo. Benvenuti all’inferno, c’eravate già.
Passi
Autore: Jerzy Kosinski
Traduttore: Vincenzo Mantovani
Editore: Elliot
Dati: 2013, pp. 156, € 16,00