L’alibi dei “tengo famiglia”

Creato il 09 febbraio 2014 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

L’affiorare come un fiume carsico degli innumerevoli casi di pedofilia nelle gerarchie della Chiesa, ripropone la necessità di rivedere l’edificio di regole e interdizioni imposte ai sacerdoti, imperniate sul celibato e l’opportunità di imprimere una “normalizzazione” che investa le loro esistenze,  perché possano vivere le umane aspettative affettive alla luce del sole, nella consapevolezza che sono repressione, paura e opacità a far sconfinare le inclinazioni e i desideri in perversioni, sofferenze inflitte a sé e agli altri.

Invece, a ben pensarci, dovrebbe essere imposto il celibato ad altre categorie, che più che con le anime, hanno a che fare con le menti degli altri, con il pensare comune, con le scelte civiche, anche se ho pudore ad usare questo modo di dire per via di certi recenti abusi. Si, sarebbe salutare e obbligatorio imporre una vita casta, contegnosa, severa e monacale a tutti quelli che esigono indulgenza, tolleranza, comprensione e compassione per i loro vizi pubblici e privati, per l’indole al compromesso e cambiar casacca, per una tendenza reiterata a prostituirsi e svendersi, che in fondo “tengono famiglia”.

È presto detto quali dovrebbero essere le categorie oggetto di questa misura sanitaria, di questa restrizione augurabile per motivi si salute pubblica: i nostri rappresentati prima di tutto, incandidabili se fidanzati e in attesa di convolare, decadenti se hanno coltivato unioni di fatto non legalizzate, grazie tra l’altro alla loro indifferenza al tema, non eleggibili se forniti di nutrita figliolanza, in modo da rendere meno esposti loro alla inevitabile trasgressione e noi alla richiesta di affettuosa e complice comprensione bi partisan da parte di Calearo, Scilipoti, Razzi, e su su e giù giù nelle gerarchie e nella storia.

Che poi l’esibizione di familismo amorale nei ceti dirigenti ha l’effetto di innalzare pericolosamente la soglia di tolleranza del fenomeno e pure l’istinto imitativo  nell’intera collettività, soprattutto in chi vede in questa prassi una “licenza”, tanto giustificata da diventare obbligatoria, in questo clima esasperato, nel quale il mercato del lavoro è sempre più precario e arbitrario, i servizi sono retrocessi a elargizioni, i diritti regrediscono a favori discrezionali.

Si sarebbe un giusto contrappasso imporre – anche in Francia si direbbe e non solo – astinenza sentimentale e amorosa magari limitandola a prima e durante l’incarico, a chi appartiene al ceto che proprio della famiglia ha fatto strame, pur convocando oceaniche manifestazioni, facendosi immortalare in edificanti album natalizi, difendendone solo la forma “corretta”, a discapito da qualsiasi altri legame d’amore, facendone un luogo confinato nel quale si consumano crimini, dagli ammazzamenti alla repressione di inclinazioni e aspettative, dove si è costretti a convivenze indesiderate, dove si perpetuano dipendenze informali alle quali sono più esposti giovani, vecchi e donne, dove si vivono fatiche tremende in sostituzione di servizi e cure inaccessibili, stanza di compensazione della cancellazione della coesione sociale.

Un’altra categoria per la quale sarebbe raccomandabile esigere celibato, e anche nubilato, è quella giornalistica. Per essere esentati da quegli edificanti memoriali delle concite, delle darie, della barbare, dei massimi, che alimentano la loro sociologia domestica e la loro pedagogia tramite figliolanza più o meno esuberante. Per sottrarci all’egemonia genitoriale, persuasa della convinzione di essere esclusivi depositari della preoccupazione per il futuro e della missione di trasformarla in elzeviri, amache, rubriche, moniti, memorialistica, romanzi, presenze televisive, con uno sgangherato e inebriante culto dell’abuso d’ufficio, dell’informazione a uso privato e della stampa ad personam. Ma soprattutto per esimerci dalle loro acrobatiche conversioni, dai loro equilibrismi sempre sorprendentemente esercitati dalla posizione supina, dalle ribellioni seguite da nuove servitù altrettanto entusiastiche, dalla folgorazione per cause insospettabili vorticosamente dimenticate. L’ultima moda per la casacche rivoltabili e scambiabili è quella di stare in influentissimi gruppi editoriali, griffati Fiat o Confindustria o De Benedetti, dove si scrivono prudenti articoletti mansueti, pensosamente allineati all’ideologia di regime e alla linea del padrone, europeismo senza se e senza ma, austerità come incidente superabile, luci in fondo al tunnel, attenzione terpida per nuovi padroncini inoffensivi per i vecchi, culto delle istituzioni  ormai svuotate di democrazia, in quanto custodi della conservazione e dei privilegi, per poi esercitare, ad intermittenza, spirito critico, indole alla giovanile ribellione, ma fuori, nei blog, firmando appelli in qualità di “riformisti”, candidandosi a ruoli pubblici e di rappresentanza, come se stare a guardare col gomito appoggiato sul davanzale fosse la forma più efficace e sofisticata di stare tra la gente e , peggio che mai, nella sua pancia.

È che anche loro hanno famiglia, figli che vogliono subentrare loro per diritto dinastico, padri che in qualche caso si rivoltano nella tomba ma il cui nome è servito a accreditare giravolte spericolate dall’assoggettamento ideale e professionale alle banche e la condanna altrettanto impetuosa.

Aggiungerei all’elenco oltre ai pubblicitari del Mulino Bianco, i malavitosi, anche loro intrisi di mistica della Famiglia, ma i cui figli sono bersaglio di orrende vendette, alcune dinastie che vanno sempre peggiorando e le cui proprietà ben più utilmente potrebbero tornare alla società che ne è stata espropriata.

Ma l’elenco comincia a farsi lungo, già la crisi minaccia l’unità familiare, gli affetti e la solidarietà, e le nascite tra gli indigeni calano. Ma a pensarci bene non è detto che sia una disgrazia.


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