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L’allegra mattanza dell’artista [Silloge]

Creato il 14 gennaio 2014 da Wsf

ninfa

Il folletto scribacchino

C’era una volta un artista folletto
che scriveva per l’altrui diletto;
e quanto godeva, il poveretto
appena creava un nuovo versetto!

La smania e la sete del proprio talento
lo costringeva a farsi portento -
giurò ai lazzi e alle folle festanti
che mai avrebbe deluso gli astanti!

Ma più la sua anima progrediva
più il suo corpo invero ingrigiva,
perché si sa che più si fa arte
più la salute vien messa da parte.

Scriveva e scriveva, dimenticando
quel mondo che un tempo andava cantando.

A furia di scrivere la mano sparì
ma del consumarsi non si pentì:
scrisse per anni con l’altra mano
finché anche quella fu un ricordo lontano.

Scrisse allora usando la bocca,
e gli altri dicevano “che cosa sciocca!”

Ma fare arte è un bisogno, questo si sa,
è dipendenza dalla beltà.

Morì sui fogli del color dei gigli,
tracciati di nero con versi sul vero;
e poiché la bocca fu consumata scrivendo,
non seppero mai che morì sorridendo.

***

Il mattatoio

- Facci ridere!

Li guardo.
Ho il fiato corto e mi tremano le gambe. Un’unica goccia di sudore scivola indisturbata sulla fronte per fermarsi, gelida, sulla tempia.

Ripetono: – Facci ridere!

L’ordine è perentorio, inconfondibile. Il mio corpo sa già cosa fare. La bocca sorride e le gambe si muovono. Il dolore alle ginocchia non mi dà tregua mentre improvviso un balletto. Mulino le braccia e i porci applaudono nei loro completi gessati, coi colli stretti nei cappi di seta e sigari fra i denti; applaudono con le mani grandi, gonfie, grasse, ingioiellate all’inverosimile, ridono. Non c’è gioia. Sono versi di animali isterici ed eccitati, finte risate assordanti.

Hanno un odore acre misto a qualcosa di viscido, come se sudassero bile e bava. Le luci mi impediscono di vedere i loro occhi ma posso immaginarli. Occhi che traboccano vuoti d’orgoglio per il proprio potere.

- Facci ridere!

Ballo. I miei movimenti sono scattanti, innaturali. Sono quelli a far ridere. Piroetto, salto. Le ginocchia per poco non cedono. Incespico. Basta un movimento storto per mandarli fuori di testa.

- Ancora! Ancora! Balla!

Aspettano il mio fallimento. Sarà quello a farli ridere davvero. Non perché li diverte, ma perché possono. Sono un corpo vuoto da usare fino allo spasmo. Devo farmi rompere e sostituire da un nuovo modello. Su questo palco non resiste nessuno.

Con la coda dell’occhio intravedo la nuova ninfa dietro le quinte; è in ansia, non mi guarda. Sarebbe come assistere alla propria fine. La capisco. Fa bene. Io l’ho guardato, il mio predecessore, e non avrei dovuto.

- Balla! Balla!

Sorrido ancora. Non c’è nulla di più falso: mostro le gengive. Ascolto i miei passi sul palco. Assi di legno impregnate di sangue su cui scivolare. Sento i loro respiri pesanti. Sanno che sono debole, che è quasi ora di mangiare, e si sono stancati del mio balletto. Non demordo. Non so perché. So di essere nata per questo: non c’è un prima né un dopo. Qualunque cosa io sia esiste solo su questo palco.

Non riesco a fermarmi. Devo andare avanti fino alla fine, devo sorprenderli. Sono il loro animale da palcoscenico. Sono di tutti loro e devono sopportarmi fino alla fine.

- FACCI RIDERE!

Urlano. Sento la loro rabbia. Sono affamati, eccitati, si sporgono dalle sedie, mi fissano a bocca aperta con gli occhi spalancati, vivi più che mai. Sudano adrenalina. Sono furiosi. Sta durando troppo. Verranno a prendermi sul palco, mi prenderanno per i capelli, mi trascineranno fuori, mi strapperanno gambe e braccia per l’insolenza.

È proprio allora che il mio ginocchio cede. Mi accascio con un rumore di vetri rotti. Intorno a me un boato: applausi, risate, fischi. Sospiri e ruggiti. Le bestie sono pronte, mi aspettano tendendo le braccia. Hanno fame.

L’ultima cosa che vedo è il mio sangue brillare sul legno, accecante, un lago di rubini. La nuova ninfa ci ballerà sopra, lo sporcherà e lo riempirà di nuovo. Qualcuno mi solleva. Non sento dolore.
Sussurrano:

- Alla prossima dobbiamo spezzare almeno una gamba, non possono durare tanto…

Mi portano fino al proscenio, prendono lo slancio e mi lanciano giù dal palco. I porci si avventano su di me come mosche ingorde e piene di denti.
L’ultima cosa che sento è un applauso lontano: il loro prossimo pasto sta già eseguendo una piroetta sul mattatoio.

***

L’allegra mattanza dell’artista

Non è che decidi di fare arte:
è che un giorno prendi le carte
- scrivi disegni dipingi scolpisci -
e il vero motivo non lo capisci.

Dicono che l’arte è terapia
e poi la spacciano per scelta pia;
ma più che missione è un fatto morale,
un ben ponderato voto claustrale.

Il vero artista è un disastrato
che nel creare vien disossato
dal pubblico errante, di raro pagante -
quel che alle spalle lo chiama brigante, furfante,
o un verme strisciante.

L’arte vera è quella del martire
che corre al patibolo senza patire.

Va volentieri in piazza a morire,
l’anima esposta al pubblico dire;
non ha paura della mattanza,
ma di tradire la propria coscienza.

Quei buffoni che vogliono eccellere
spacciandosi artisti per proprio volere -
convinti che l’arte sia un grande sollazzo -
sono forieri di grande imbarazzo.

Son pure convinti di fare la storia
questi patetici pieni di boria,
esseri indegni pur idolatrati
da un gregge belante di sciagurati.

Chi fa arte va a morte felice,
scarnificato da forza creatrice:
perché è il suo corpo quello che langue,
ma l’anima è tesa al divino e lo segue.

Daniela Montella


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