Colori psichedelici investono violentemente il pubblico, all’apertura del sipario: la scena si presenta come un quadro di Picasso immerso nell’atmosfera cupa di un incubo delirante, in cui le voci stesse perdono materialità per confluire in un vortice di echi. Marco Isidori, regista e curatore dell’adattamento drammaturgico, afferma senza esitazioni di aborrire il palcoscenico all’italiana. E, in effetti, ben poco rimane del teatro standard: lo scenario ideato da Daniela Dal Cin porta a uno sviluppo verticale della rappresentazione, attraverso passaggi segreti, botole e porte che razionalizzano l’incubo in una struttura geometrica e compatta. È una versione della tragedia di Sofocle che, indubbiamente, cattura il pubblico: se, in un primo momento, rimaniamo sconcertati dall’ardimento estetico della messa in scena, poi, veniamo risucchiati dall’angosciante, e sempre più frenetica, ricerca della verità intrapresa dal protagonista. Per quanto la storia di Edipo sia ben nota, grazie a un’unione vincente di cultura e luoghi comuni, subiamo ugualmente il senso di impotenza che coglie l’illustre re tebano di fronte alla presa di coscienza della mostruosità delle azioni compiute inconsapevolmente. Ma è proprio questa la sensazione che la resa dei Marcido suscita in noi, la passività; e devo dissentire dalla convinzione del regista di riuscire a non far sentire il pubblico un estraneo all’interno di questo esperimento avanguardista. Uno dei principali “problemi” che le tragedie greche pongono ai registi contemporanei è il superamento della staticità che le caratterizzava: in questo caso, i frequenti movimenti del coro e i diversi livelli da cui i personaggi comunicano tra di loro, attenuano notevolmente la rigidità dell’impianto classico. Ma la vera forza di questa compagnia così innovativa consiste nella sperimentazione vocale. Isidori esprime bene l’intento di creare «un amalgama sonoro vorticante, che soprattutto andrà ad interessare la parte corale dell’esperimento in atto, servendo in questa maniera la nostra concezione fortemente fonematica del processo di comunicazione teatrale». E l’incubo psichedelico fa da cassa di risonanza per voci poco comuni, che vanno dai toni melodiosi, quasi lirici, di Giocasta (Lauretta Dal Cin), madre e moglie di Edipo, all’arroganza esuberante di Creonte (Paolo Oricco), fino all’irremovibile saggezza del vecchio indovino Tiresia (Maria Luisa Abate); ma è l’unione delle sonorità nel coro a rendere veramente esplosiva la bravura di attori coordinati alla perfezione, dotati di un unico fiato in un unico, grande corpo.
Solo Edipo, interpretato dallo stesso Marco Isidori, risulta poco “tragico”: fin dall’inizio, la sua voce si distingue dalle altre per la debolezza e l’insicurezza, preannunciando con largo anticipo quale sarà il triste esito del suo impegno politico. Appare fin da subito la vittima di eventi incontrollabili, come il terrore dilagante in tutta Tebe per la diffusione di un’inspiegabile epidemia di peste: «Perché assediate di tanto male Edipo il Famoso?». Ma è difficile immaginare quale potesse essere, prima del capovolgimento improvviso della sua fortuna, la statura eroica di questo re (difficoltà data, in larga parte, anche dalla variopinta giacca indossata dall’attore, simbolo dell’arte del risparmio nel riutilizzo di oggetti quotidiani come le mollette dello stendibiancheria…). Edipo, che si è guadagnato la stima e il rispetto dell’intera città, non può accettare che la sua gloria venga distrutta, ma, nella sua ricerca delle cause dirette della peste, teme di scoprire quelle più remote, che, inizialmente tramite le parole di Tiresia, si rivelano legate a un omicidio rimasto impunito: «Sapere è terribile, quando, appunto sapendo, sappiamo che ci farà male». Edipo non vede realmente la consistenza delle sue azioni: è fuggito dalla città in cui è cresciuto, Corinto, per evitare di realizzare un oracolo che gli prediceva i crimini terribili dell’uccisione del padre e dell’unione coniugale con la madre. Ma non si può sfuggire a una simile sentenza. Edipo conduce una lotta con se stesso, ricomponendo, pezzo dopo pezzo, il mosaico della sua esistenza, fino ad arrendersi di fronte a una verità che prende violentemente il posto della menzogna in cui lui è cresciuto. Il culmine di questo processo, il momento dell’arti manthano (“ora capisco”), gli rivela, nel sarcasmo più terribile, l’inutilità della sua fuga da quelli che riteneva essere i suoi genitori, i sovrani di Corinto, e il vero significato dell’uccisione di un uomo, suo padre Laio, re di Tebe, e del matrimonio con una donna, Giocasta, sua madre. La vista di cui finalmente entra in possesso è troppo dura da sopportare: «Ahi! Tutta la luce abbaglia l’esistenza mia di nato storto! Storto lo stato coniugale! Storto quello filiale! Storta tutta la luna nel firmamento mio! Edipo, io, non voglio più per me che luce sia!». Edipo si trascinerà, esule e cieco, per i luoghi della terra più lontani da Tebe, attendendo la morte. La parabola discendente del re ha raggiunto il punto più basso, e il coro ci invita a osservarlo in tutta la sua miseria: «Tebani, popolo, eccolo, Edipo, il primo, il potente, l’invidiato re: eccolo, adesso, cos’è! Non reputate mortali, un mortale felice, mai!». Ci risvegliamo dall’incubo, con una riflessione: tra realtà e allucinazione, c’è un confine estremamente labile.
I tre scatti inseriti nell’articolo sono stati gentilmente concessi dal Teatro Stabile di Torino
Edipo Re
tratto dall’Edipo Re di Sofocle
Drammaturgia e Regia: Marco Isidori – Scenario e costumi: Daniela Dal Cin
con Marco Isidori, Lauretta Dal Cin, Maria Luisa Abate, Paolo Oricco, Stefano Re, Valentina Battistone, Virginia Mossi
Produzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino / Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
con il sostegno del Sistema Teatro Torino
Torino, Teatro Gobetti, dal 21 febbraio al 4 marzo 2012