In quel casino di tavolata una voce femminile soltanto mi rivolge di continuo la parola e la domanda è sempre uguale: ma tu che lo conosci mi dici almeno che tipo è?
Sorvolo e glisso, come una sciatrice da medaglia d’oro evito bandierine e quel dosso assai pericoloso.
Ma tu lo conosci e che tipo è?
Non voglio parlare di te, ti ho già dimenticato, e comunque non posso togliere la benda alla ferita rischiando di trovarla ancora aperta.
Ma questa insiste e gioca coi capelli biondi tinti che rischiavano di finirmi nella pizza. Talvolta si distrae ma poi torna a toccarmi il braccio e comincia di nuovo a domandare.
No, non lo conosco bene! Le dico in un sorriso sperando di chiuderla così, ma dopo un distratto, sì, capisco, inizia a raccontarmi di un te sconosciuto e un po’ volgare, di un te mai visto.
L’idea che fossi fuggito da casa sua come un coniglio, accende d’improvviso la luce nel passato, in quella stanza dove mai più avevo messo piede, così piena di parole e punti fermi.
E i dialoghi pomeridiani sull’amore, su quel valore che tu ritenevi così alto, sulla morale e sul tradimento che mai ti aveva sfiorato durante i legami precedenti.
Era sposato e non l’aveva detto!, continua a dire quella stronza di cui non voglio ricordare il nome, e che avrei preso a schiaffi e che forse parla di un altro te, uno che non conosco mentre io non posso fare a meno di ascoltarla, di annuire e impallidire a vista d’occhio.
I libri che impilavi a bordo scrivania per sottolineare la distanza e che quell’ultima volta mi nascondevano del tutto, sempre chinata al tuo cospetto, davanti alla tua forza, alla determinazione di chi cerca un’altra strada, una via più lunga o mai battuta prima.
Tu che quasi mai mi rivolgevi lo sguardo, a parte quella volta, quando lasciasti scoperti solo gli occhi per tenerli dentro ai miei, a lungo.
Chissà cosa volevi domandarmi.
E quella continua a chiacchierare di quel te mai visto, mentre mi domando con insistenza chi avessi mai conosciuto, se una maschera o uomo diverso.
Sto lì come una scema di fonte all’evidenza, a quello sguardo arrogante, a mettere in ordine le cose dimenticate più di un anno fa così come stavano, come una che scappa durante un terremoto.
La tua timidezza infinita e la dolcezza, adesso, dove posso metterle?
E là, il tuo passo vago che cosa sta più a significare? Prima era incertezza ma ora che ti so così diverso a cosa lo posso attribuire? e lo sguardo sempre attento?, e le tue parole, tante, che a ripensarci adesso non hanno più senso, messe assieme alla pessima opinione che di te hanno gli altri, di fronte a una verità così condivisa e a cui non posso oppormi.
Quella continua e scende nei particolari, sì sei proprio tu e io non potevo più negare, difenderti in qualche modo o sperare ancora in un errore.
Quello lì?, ma tu non lo conosci...
Sì, non ti conosco e non capisco che genere di recita tu abbia messo in atto: la solitudine come sola alternativa a un amore irraggiungibile, così pudico nel parlare di te e dei tuoi più sinceri sentimenti, irraggiungibile, al chiuso dentro te stesso.
Ma tu non sai che storia, tu non sai che tipo... , e finalmente raggiunto un compromesso con se stessa, la bionda ridanciana raccoglie i capelli sulla nuca.
No, io non so niente di più di quanto tu mi hai raccontato, e mi piaceva la tua insofferenza a tutto ciò che c’è nell’amore di prevedibile e normale, a quella ripetizione infinita di regole. La distanza da certe piccole norme da manuale ho amato in te, la parsimonia nel darti a qualcuno per paura di sbagliare ancora, centellinare le attenzioni sugli altri ma mai per avarizia.
E adesso chi è che posso ricordare?
Non è uno che scappa come un ladro in piena notte che voglio ricordare, uno che spegne il telefono per paura di rispondere, un tipo che mente pure con se stesso e che si racconta così diverso, leale, forte e onesto.
Ora posso tranquillamente togliere le bende, non sei che una puttana e la ferita è ormai guarita.