Il fantasma dell’operaGaston Leroux
A volte capita di avere una musica in testa. È lì, in sordina. Un sottofondo piacevole, ancora non identificato, ma sai che è legato a ricordi belli. Poi esplode: In sleep he sang to me, in dreams he cameThat voice that comes to me and speaks againAnd though I dream again, for now I knowThe Phantom of the Opera is there, inside my mind.
The Phantom of the Opera! Ho anche il libro, perché non rileggerlo? E perché a volte mi pongo queste domande! Dopo i primi capitoli ho ricordato parecchi motivi per non rileggerlo. Riavvolgo la bobina: “galeotto fu il musical e chi lo scrisse”. Il mio primo contatto col fantasma avvenne negli anni ’90. All’epoca insegnavo e la mia collega di inglese portò da un suo viaggio un souvenir strepitoso: la videocassetta del musical di Andrew Lloyd Webber (non un film, ma lo spettacolo teatrale) che usava “a scopo didattico”. E quel personaggio drammatico, quella solitudine, quelle musiche mi sono rimaste impresse nell’anima. Non ricordo i dettagli, ma un fatto mi aveva colpito: “è così tragico da non avere neanche un nome”. Per tutta la durata dell’opera, quel personaggio geniale e folle, assassino e poeta, resta un fantasma. Un’ombra, spesso nefasta e maligna, destinata al nulla. Lessi il libro dopo aver visto la versione teatrale. Delusione. Leroux ha il pregio di aver creato un personaggio eccezionale. Grande nel bene e nel male. Erik (a differenza del musical il fantasma sceglie per sé un nome) è un genio ed è un uomo solo. Mentre leggevo, percepivo la sua solitudine e ne soffrivo. Perfino quando arrivava ad uccidere. Ama la bellezza ed è prigioniero di un corpo fatiscente. È luce e tenebra insieme. È “La musica della notte” di un angelo caduto che riesce a riscattarsi. Questa magnifica gemma quasi si perde in una montatura eccessiva, come un rubino nella melma; la narrazione è un gioco di “storia nelle storie”, che rimbalza da un narratore all’altro in una prosa pomposa, pletorica e stancante. Ripetizioni e troppi dettagli inutili la zavorrano. Confesso: detesto il francese; ogni volta che penso agli anni trascorsi a studiare i romanzieri d’oltralpe (en français, naturellement) sento gracidare le rane. Ed anche la prosa: la struttura delle frasi non mi è congeniale. Il “remake” di A. Lloyd Webber conferma un mio vecchio pregiudizio: il romanzo “parla inglese”!
Adesso cerco il dvd, così raglio a squarciagola: in sleep he sang to me…
Magazine Cultura
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