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I Levov, cioé in primo luogo Seymour Levov, imprenditore di successo, spensierato marito e padre di famiglia, discendente di immigrati ebrei che con la sua vita ha saputo incarnare l'ideale dell'americano perfetto, il sogno stesso dell'America. E chi se non lui, l'uomo che già ai tempi del college, quando era un campione a football, avevano soprannominato lo Svedese, per i capelli biondi, gli occhi chiari, l'espressione che era un concentrato di tenacia, ottimismo, fame di futuro?
Eppure ci può essere tempesta sotto la superficie, anche in una vita così. Può succedere qualcosa che rimette in discussione ogni certezza e ruba la vita in cui si è sempre creduto per lasciare solo una parte, da recitare con maggiore o minore perizia.
Che storia, questa storia che Philip Roth ci racconta in Pastorale americana. Ascesa e declino, sogno e tragedia, parabola individuale e storia collettiva, legami famigliari e guerra del Vietnam, con le ferite che il terrorismo ha inferto anche all'America.
E poi il punto di vista di chi racconta, quel Nathan Zuckerman che è il consueto alter ego di Philip Roth, lo sguardo di chi non riesce davvero a vedere, di chi capisce che la semplicità non è poi così semplice, che c'è qualcosa che suona falso ma che è quasi impossibile penetrare, perché fa parte del mistero e forse dell'insensatezza della vita.
E anche il fascino di quel punto interrogativo che è lo Svedese:
Ho passato i sessant'anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le stesse prospettive che aveva da ragazzo, eppure l'incanto non si è mai dissipato del tutto, perché fino a oggi non ho dimenticato lo Svedese che, placcato dagli inseguitori, si rialza lentamente, scrollandoseli di dosso, alzando lo sguardo ribelle al cielo autunnale, sospirando mestamente, e torna al piccolo trotto verso il gruppo dei compagni.
Così americano, come un sogno, un sogno che non vorresti mai abbandonare, solo che alla fine non si può più dare tempo al tempo.
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