E sempre, sempre, il narratore è l’amico meno brillante. Quello sfigato, che ha meno successo con l’altro sesso. Quello introverso, che pensa mentre l’altro fa. Che sta a guardare e, appunto, racconta. Il narratore non è mai, per parafrasare il titolo del libro di Elena Ferrante, l‘amico geniale. È l’altro.
Viene da pensare che questo sia un po’ il destino di tutti gli storyteller, degli scrittori e degli intellettuali pensosi in genere. Un po’ tipo quello che suona la chitarra mentre gli altri limonano, per dire.
Ma veniamo al romanzo di Elena Ferrante.
Lila e Lenù crescono in un rione di Napoli, e quel rione è tutto il loro mondo. Fuori c’è una città misteriosa, Napoli, con un vulcano e un mare che loro non hanno visto mai. La figlia dello scarparo e la figlia dell’usciere sono molto diverse, da bambine, e ancora più diverse diventeranno crescendo.
Lenù, Elena, è bionda e grassoccia e studiosa e diligente, riuscirà a ottenere il privilegio di studiare, di uscire dal rione per recarsi al liceo classico, addirittura.
Lila ha la fama di bambina cattiva, è secca e selvaggia, tiene testa ai maschi ed è geniale. In realtà, sarà lei a usare l’espressione “tu sei la mia amica geniale“, riferendosi tuttavia a Elena, unica ragazzina del rione a completare gli studi. Ma Elena è studiosa e compita, e questo non ha nulla a che fare con il genio. Lila, invece, impara il greco e il latino da sola, così, per sfida, perché non sa cosa fare nei pomeriggi afosi. Inutile dire che Lenù la venera, e perfino i suoi successi scolastici sembrano solo un riflesso delle conversazioni con l’amica, il suo stile di scrittura lodato dai professori una pallida imitazione delle lettere di Lila, capaci di imprimere alla parola scritta la fresca immediatezza della conversazione.
Crescendo, da brutta e secca che era, Lila diventa un magnete che attrae gli uomini e genera vortici di passione e conseguente invidia. Lila abbandona le velleità scolastiche, si concentra sul sogno di ricchezza garantito dal suo promesso sposo, che guida una decappotabile rossa. Lei che nel rione sembra una scheggia impazzita, pare infine piegarsi alle sue regole non scritte. Elena invece no, lei ha studiato e si sente sempre più estranea alla violenza, di linguaggio e di gesti, di un luogo dove la la miseria è consuetudine, la vendetta obbligo.
Sì, perché l’infanzia e adolescenza della sfolgorante Lila e della pallida Lenù appartengono al mondo del rione. Un mondo dove da bambini si può morire per un nonnulla – una caduta, un’infezione, una polmonite – e dove da adulti basta uno sguardo per scatenare risse e catene interminabili di vendette. Un mondo dove chi ha denaro – farmacisti, salumieri e pasticceri – merita ammirazione e rispetto, compra automobili e persino il televisore. Un mondo segnato dagli spettri della guerra, della borsa nera, della camorra. Un mondo crudele, insomma, violento in ogni sua fibra di una violenza spesso sottaciuta, sotterranea, eppure reale.
L’unica altra cosa che ho letto di Elena Ferrante è stato “La figlia oscura“, che ammetto di aver interrotto perché lo trovavo poco coinvolgente e in compenso troppo disturbante. Qui invece qui mi sono affezionata alla narrazione “fiume” nel dipingere un grande affresco napoletano, ma al tempo stesso netta e precisa nello stile, nel delineare con poche accurate parole personaggi e situazioni. Narrazione e presenza di un personaggio femminile fuori dal comune che mi hanno ricordato l’”Arte della gioia“ di Goliarda Sapienza, romanzo che ripercorre l’intera vita di una donna straordinaria a dispetto del nome, Modesta, in una Sicilia d’altri tempi.
“L’amica geniale” si chiude con un matrimonio, momento inevitabile di passaggio all’età adulta. C’è chi resta nel rione, e chi cerca un appiglio per fuggire lontano. Attendo di affrontare i prossimi capitoli della trilogia inaugurata dalla Ferrante, personaggio peraltro molto misterioso della scena letteraria italiana: “Storia del nuovo cognome” e “Storie di chi fugge e di chi resta“. Vi farò sapere.
Elena Ferrante
L’Amica Geniale
edizioni E/O