Come ben tutti sappiamo - e se non lo sapete ora vi state facendo una grande cultura - il 10 agosto ricorre la festività di San Lorenzo, allora tutti quanti con il naso all'insù per cercare qualche meraviglioso astro che percorre a svariate migliaia di km orari il cosmo ed esprimere un desiderio. E voi, comuni mortali che magari godrete di quella notte dalle vostre afose città illuminate, immaginate cosa posso vedere io da una spiaggia immersa nel sud-ovest di quell'isola che uno sconosciuto cantautore italiano suggerirebbe al buon Dio di regalarci come Paradiso.
A dir la verità non mi è mai capitato di godere della notte di San Lorenzo da una spiaggia; solitamente da bambino stavo affacciato alla finestra di casa di mia nonna, immaginando piogge di meteore che cadevano per la gioia degli infanti. E puntualmente non riuscivo a vedere neanche una misera scia.
Però una volta, circa 3 anni fa se non sbaglio, mi è capitato di godere del cielo non contaminato dalla luce che noi bestie a due zampe produciamo in quantità spropositata. Avevo appena passato una sera sulla sommità di uno scoglio alto 18 metri, cercando le forze per lanciarmi nell'azzurro mare sottostante, fallendo miseramente. La notte, insieme ad altri baldi giovani, decidemmo di far provviste di alcolici, panini e rimanere a banchettare (rigorosamente senza tenda "perché altrimenti la Forestale ci multa") nella pineta a ridosso della scogliera.
La nottata andò avanti a lungo tra canti, giochi, bagni al chiaro di luna totalmente spogli come vermi, bevute, ripetute occasioni di cadere giù dal sopracitato scoglio, finché non sopraggiunse il sonno. Forse irrequieto per il caldo, o disturbato dalla musica delle lontane discoteche portata dal vento, non riuscii a prendere subito sonno: giravo e giravo nel sacco a pelo ma non trovavo pace. Decisi allora di andare a fare una passeggiata con gli auricolari nelle orecchie, e sedermi sugli scogli noncurante del pericolo.
Contemplando il mare vedevo la luna riflettersi su uno specchio d'acqua che pareva disegnato con i colori ad olio tanto era la bonaccia, e tra una canzone e l'altra, un pensiero, e uno sguardo buttato al cielo mi addormentai sugli scogli.
Ad un certo punto l'acuto, stridulo e divino suono della gaida macedone di Crêuza de mä si impossessò delle mie orecchie destandomi dal sonno. Dopo un momento iniziale di stordimento, aprendo gli occhi, probabilmente, ho provato ciò che provò Dante nel XXXIII Canto del Paradiso.
La luna, ormai tramontata, aveva lasciato spazio ad un cielo terso di stelle, una moltitudine incredibile di puntini luminosi che risplendevano alti sopra di me, facendomi sentire allo stesso tempo piccolo, misero, insignificante ma comunque immensamente felice di poter godere di uno spettacolo simile. Provai qualcosa che è quasi impossibile spiegare a parole, difficilmente si riesce a spiegare una sensazione simile. Ricordo solo che Fabrizio continuò a cantare e a portarmi a spasso per la mulattiera, mentre il mio cuore saliva su per la gola e tutto era semplicemente perfetto.
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