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L’amore ai tempi del colera

Creato il 27 febbraio 2013 da Cultura Salentina

L’amore ai tempi del colera

27 febbraio 2013 di Francesco Danieli

Matino 1867: Il ‘miracolo di san Giorgio

L’amore ai tempi del colera

La statua di san Giorgio esposta a Matino per la ricorrenza del 27 febbraio

Nel 1865 l’intero stivale italico, ad appena tre anni dall’unificazione nazionale, fu sconvolto da una forte epidemia di colera che mieté vittime a dismisura. Il contagio, scatenato e aggravato dalla mancanza di igiene, ebbe una seconda ondata l’anno seguente.

Così, tra il 1866 e il 1867, anche il Salento fu colpito dal tremendo batterio intestinale e grande terrore si diffuse tra la popolazione. Un’improvvisa scarica di diarrea, un conato di vomito e uno stato di rapida disidratazione parlavano chiaro. E si pensava al peggio, confondendo tra l’altro – allora come oggi – il colera con la peste. Negli ultimi giorni del febbraio 1867, la situazione andò precipitando in numerosi centri urbani di Terra d’Otranto.

Dalle fonti documentarie, dalle tradizioni locali e dalle feste di patrocinio che si celebrano in più luoghi del Salento ancora ai nostri giorni, sappiamo che la popolazione ricorse all’intercessione dei santi. A Lizzanello san Lorenzo, a Gallipoli santa Cristina, a Castrignano del Capo san Michele Arcangelo, a Casarano san Giovanni Elemosiniere, giusto per fare qualche esempio. Spinti dalla paura di beccarsi il malanno, avvertendo i primi sintomi del contagio o in ansia per qualche familiare rimasto a casa colpito dagli attacchi, uomini, donne e bambini si accalcarono a fiumane nelle chiese matrici dei vari paesi.

Canti litanici, preghiere di intercessione e di supplica si levavano al Cielo attraverso le orazioni dei preti e i canti dei fedeli. Così avvenne a Matino, il 27 febbraio 1867, quando le accorate richieste vennero rivolte al patrono san Giorgio, la cui bella statua lignea era stata esposta in chiesa per meglio invocarlo come paciere tra Dio e i peccatori. Giacché, fino a non troppo tempo fa, un’assurda teologia veterotestamentaria ha fatto ritenere i contagi e le calamità naturali come le punizioni divine per l’infedeltà e l’immoralità dei cristiani. Una memoria scritta, conservata presso la chiesa madre di Matino, riporta che durante le preghiere pubbliche ci si accorse con stupore che il simulacro del protettore, ad un tratto, iniziò a trasudare. Un giovane prete del posto, tale don Giovan Battista Nassisi, balzò sul tosello e, con i fazzoletti che i singoli fedeli gli porgevano, cominciò a tergere il sudore dalla fronte del santo, ripassando di volta in volta il fazzoletto divenuto reliquia al proprietario. Il sacerdote, meglio noto come “papa Titta” e mio antenato per parte di mia mamma, sarebbe divenuto in seguito il protagonista di esilaranti “culacchi” in stile papacaliazzesco. Burlevole e arguto, pare che in quell’occasione facesse davvero sul serio. E il flagello cessò, come per miracolo.

Non eravamo lì, quel giorno, noi dissacratori che oggi prendiamo tutto con le pinze. Né sappiamo come andarono realmente i fatti per esperienza diretta. Sta di fatto che uno di quei fazzoletti fu inviato al vescovo di Nardò, ordinario del luogo, mons. Luigi Vetta (1849 – 1873) e un altro, conservato da una famiglia matinese, è risbucato un paio d’anni fa ed è stato consegnato all’attuale parroco che nella ricorrenza del 27 febbraio lo espone alla venerazione dei fedeli.

La processione e la festa di “san Giorgi piccinnu” rammentano ogni anno ai matinesi questa storia devota, meritevole di essere raccontata. Perché è parte della storia civile e religiosa di un popolo, vera o fasulla che sia. Perché è questione di cuore. E il cuore degli altri si visita sempre e comunque in punta di piedi, con la certezza di non esplorarlo mai abbastanza. Visto che, per dirla con Gabriel García Márquez, “il cuore ha più stanze di un casino” (dal libro L’amore ai tempi del colera).

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