Il primo capitolo del mio primo romanzo: danza intorno alla Sardegna, alle donne, ai segreti. Danzi con lui? Per chi vede la Sardegna come un mistero da svelare, figlia e madre di donne forti, donne forti come un toro.
Attraversare in macchina quel sentiero costeggiato d’alberi, mosso da un vento morbido e profumato di gelso, inondato di un sole di fuoco che tramontava, era come correre incontro al passato. Guidava, e lo scivolare in quel sentiero che curvava leggermente a sinistra, facendo della strada cosa cieca, la inoltrava in un mondo di fiaba. “Mamma quanto manca per arrivare a casa di nonna?” “Non avrai il tempo di contare fino a cento…”. E lo faceva anche adesso di contare fino a cento, confortata dalla certezza che alla conclusione della conta, quella bella casa dal tetto color del muschio vecchio e dalle pareti d’un giallo sbiadito, si sarebbe mostrata svogliatamente, come chi sta in un medesimo luogo da sempre, per sempre. Contava ancora oggi, cresciuta negli anni, alla guida solitaria della sua macchina, certa che quella domanda a sua madre non l’avrebbe più posta.
<< Uno, due, tre… >>. Il sentiero voltava drasticamente verso destra e s’arrampicava su, tutto intenzionato alla presa della vetta. Abbassò il finestrino e respirò a pieni polmoni quell’aria di campagna che si faceva di alta collina e montagna. Tutto era in fiore e quel che ancora non era sbocciato sbrigava velocemente i propri affari, perché la natura non ama d’arrivare in ritardo. La mentuccia selvatica dominava e il profumo intenso la raggiungeva come un ricordo di ieri. La Lancia Y andava piano, non avrebbe potuto fare altrimenti. La strada era un’incrostazione di buche improvvise e ricordava bene del pericolo rappresentato dal bestiame e dai cani che sbucavano dal ciglio della strada come saette adirate contro il mondo. Nessuna stazione radio per quel sentiero scivoloso come serpe, solo il cinguettio di qualche passero ed il lamento delle tortore che l’osservavano nascoste dietro le lunghe foglie degli eucalipti d’un verde spesso. Chissà se la riconoscevano.
<< Trentatré, trentaquattro, trentacinque… >>. La strada lentamente si fece parallela al cielo che in quell’angolo di mondo dimenticato da Dio era d’un azzurro sincero e schietto, accecante per le donne di città che avevano perso l’abitudine di tirar la testa per aria.
Nessuna casa nuova, solo qualcuna un tempo abbandonata e oggi rinnovata nel gusto e nella pittura, imbellettata da giardini, da bouquet di fiori esotici e resa chiassosa dall’andare di bambini mai veduti. La salutò con finta distrazione un uomo che rincasava e che seguì l’andare della macchina fin dove gli consentì l’occhio.
Lì, al paese dei nonni, si salutava sempre, anche gli sconosciuti. Si trattava di una di quelle tacite regole apprese per imitazione, che difficilmente si sarebbero potute dimenticare.
<< Cinquantasette, cinquantotto, cinquantanove… >>. Quella piccola fontana che dava le spalle alla miniatura di chiesa campestre di San Saturno, si trovava esattamente dove l’aveva lasciata vent’anni prima. Non sputava più acqua istericamente, ma la dispensava docilmente, facendola scivolare contro quella colonna di basalto scuro, inverdito da un muschio morbido e profumato. Il liquido si andava a conservare fresco in quella bacinella di marmo color delle nuvole, levigato non già dall’artigiano che l’aveva confezionata, quanto piuttosto dalle mani delle donne che negli anni avevano raccolto l’acqua che lì borbottava. Si sarebbe fermata volentieri per bagnarsi il viso, il collo, e per ritardare l’incontro con la casa materna, dove ad attenderla c’era la nonna e il nonno. Quanti natali era che non li vedeva?
Lo fece. Accostò con la macchina al ciglio della strada, che dopo un fino margine di terra battuta, si congiungeva ad un campo di grano tagliato di recente e confezionato in balle rotonde. Il rumore sordo dello sportello che si richiudeva alle spalle di lei interruppe per qualche secondo il canto convulso degli uccelli ben nascosti tra le fronde di eucalipti, querce e pini, e quel graffiare di passi contro la terra regalò d’improvviso concretezza al luogo.
Il dintorno era di bosco spoglio ed estivo, il sole che precipitava contro la montagna ad ovest spennellava di sangue quella chiesa che un tempo le era parsa più grande, rosicchiata nella sua superficie da un muschio d’un giallo velenoso, come d’un cancro con il quale le mura avevano imparato a convivere. Oltre il limitare della piccola piazza fatta di terra battuta e circondata di pietre che segnavano un cerchio perfetto, il bosco perdeva quel sorriso invitante, facendosi scuro ed impenetrabile, non tanto per l’addensarsi di piante l’una contro l’altra, basse e ben intervallate, quanto piuttosto per l’imbrunire che diluiva gocce di blu cobalto contro l’arancio intenso, pitturando il cielo d’un violaceo tenero, umido e appiccicoso. Ben nascosto in quel boschetto di roverelle si raccontava ci fossero antiche terme, romane forse, e i resti d’un nuraghe ancora tutto da scavare. Non aveva mai avuto, prima d’ora, la curiosità di dare concretezza a quelle voci.
Spostava con l’occhio profondo rami secchi e fogliame cadente, raffinando lo sguardo e tentando di penetrare senza muovere un passo quel basso boschetto, quasi che la terra e la vegetazione di quei luoghi, a digiuno di lei da più di vent’anni la reclamassero ora, tutta intera. Non si curava del suo riflesso di donna contro l’acqua placida, né tanto più delle mani immerse nel freddo del liquido montano raccolto fra dita, che scivolava come sabbia. Avrebbe mosso un passo volentieri verso il verde silvano, ma a frantumare l’istante ipnotico ci pensò il clacson nervoso di un camion che imboccava la strada per la sua stessa direzione.
Le necessitarono alcuni attimi, voltato il capo alla ricerca del suono, per capire e si ritrovò presto a correre verso la sua macchina d’un bianco perlato, ora quasi interamente avviluppata da un imbrunire umido. Riprese la salita, ingranando in sequenza marcie basse che le consentivano di assaggiare lentamente la strada che appariva ora, a buio nuovo, meno familiare. Quella piccola camionetta che trasportava fieno e chissà che altro, imboccò presto un sentiero laterale, scomparendo rumorosamente quasi non fosse mai esistita, lasciandola sola.
<< Settantasei, settantasette, settantotto… >>. Aveva ripreso con la conta esattamente dove l’aveva abbandonata. Era la voce del suo pensiero a farle compagnia, e ora quella insolita vicinanza con sé stessa le dava alla testa. Dimenticò presto di quell’arpeggiare silenzioso del bosco che l’invitava all’ingresso. Da bambina le raccontavano che il bosco di San Saturno era la casa delle janas che si nascondevano dietro i massi, contro le roverelle, o all’interno dell’antico nuraghes. Cantavano quando volevano richiamare l’attenzione di qualcuno. Forse erano state proprio le fate del bosco ad intonare per lei quella musica che solo gli occhi potevano cogliere. Sorrise prendendosi gioco di sé stessa. “Credulona che sei…”. Se lo ripeteva spesso quando non lo facevano gli altri e tirò dritta, ingranando finalmente una terza che le consentiva di rosicchiare più rapidamente il sentiero illuminato da fari d’un giallo intenso. Superò senza quasi accorgersene la casa di Tziu Zizzu, il vicino dei nonni che fin da bambina le avevano insegnato a chiamare zio, seppure non esistesse una reale parentela fra le famiglie. In lontananza le finestre accese regalarono un non so che di domato a quello scenario campestre, che a notte si ribellava al dominio umano mostrandosi selvaggio e disabitato. Le montagne intorno parevano presepi natalizi in scala reale, illuminate qua e là da abitazioni che lei non avrebbe visitato mai. Mise freccia a sinistra inoltrandosi nel sentiero che conduceva diritto alla casa dei nonni.
<< Novantasei, novantasette, novantotto… >>. Eccolo lì quel muro alto che circondava la casa materna, un tempo d’un giallo invecchiato, ora spennellato di bianco inviolabile. Era sormontato da una breve tettoia che regalava un aspetto più elegante alla casa già di per sé importante per dimensioni e storia. Il portone alto almeno due volte lei rimaneva quello di sempre, scuro, di massiccio ciliegio invecchiato, come il resto della casa. Una luce si propagava fiocca dal cuore del giardino interno alla dimora, che da bambina l’aveva intrattenuta per più di un pomeriggio. Il forno sardo sputacchiava qua e là un fumo di cui, contro il buio della notte, si perdevano i contorni altrimenti ben definiti, e un odore di pane si spandeva tutto intorno, confortevole. Quelle quattro mura erano un fiume di ricordi.
Accostò, spense il motore e immediatamente dopo udì passi di donna precipitarsi contro la porta. Un uomo di rado sa essere così veloce, e non certo per accogliere una visita, da quel che ne sapeva inoltre, il nonno non versava in ottime condizioni di salute. Il portone si spalancò davanti a lei. La nonna aveva occhi neri di strega che scintillavano umidi, e un aureola di capelli bianchi ad incorniciarle il volto, legati esattamente come una ventina d’anni prima: in treccia aggomitolata contro la nuca. Alle spalle della vecchia l’altrettanto antico pozzo e il limone che dominava il giardino interno. Si dovette inchinare leggermente per abbracciare quella donna che profumava di pane e mandorle. << Virginia.. quanto mi dispiace! >>
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Pubblicato il 23 dicembre 2013 by Kalaris in Contusu, Sardegna, Storie di Donne e Streghe