Ci sono rari casi in cui le aspettative dello spettatore alle prese con un oggetto non identificato rinvenuto per caso (per la pratica cybernauta di rimbalzare di link in link, croce e delizia del ricercatore queste continue vie di fuga, rimando e rilancio ad un ulteriore campo/slancio) si trasformano in illuminazioni che sconvolgono ogni possibile equilibrio critico.
Così è stato per me nell’abbagliante e tetro incontro che ho avuto con L’ange di Patrick Bokanowski.
Al cospetto di quest’opera datata 1982, frutto di cinque anni di lavoro, e intravista in Italia solo attraverso Fuori Orario, si palesa quell’impasse estremamente misterioso che coincide con lo sbalordimento difronte al mai visto.
Ricercatore visivo, sperimentatore d’obiettivi e (come si capirà meglio) di “obiettività” tra fotografia e film, il francese Patrick Bokanowski è un plasmatore dell’informe, autore di misconosciuti e preziosi percorsi ipnotici in dialettico e dialogico incontro/scontro tra visivo e sonoro (affidato sempre a sua moglie Michelle). La sua è lunga carriera con poche ma seminali opere, tra cui due atipici documentari e alcuni cortometraggi che a metà anni ’70 sembrano aver influenzato persino gli esordi cinematografici di David Lynch
L’ange, forse il più complesso dei suoi film, è un percorso di ascensione visiva e mentale: dantescamente si salgono delle scale, in una progressione che si serve di inciampi della ragione, di travisamenti visivi, di trasalimenti estetici. Dalle tenebre si ascende alla luce, svincolandosi da un qualsiasi concatenamento narrativo e legando piuttosto la visione all’apparire fenomenico di situazioni al confine con l’espressionismo più marcato (tra gli altri, un uomo con la sciabola che si allena a trafiggere una bambola, una cameriera che serve un uomo senza braccia, un nugolo di librai impiegati a trasportar pesanti volumi senza sosta, etc..). Gli incontri tra le stanze disseminate in un cammino tutto mentale rivelano figure confinate in un altrove, prigionieri delle proprie azioni e/o delle proprie follie, avvinti da una meticolosa maniacale disperazione operativa, affannosi corpi in azione e coazione a ripetere (tra atti fantastici e rituali ossessivo-compulsivi è ancora il disordine psichiatrico alla base della costruzione artistica?).
Il protagonista, o quanto meno colui che percorre questa ascensione, è assente o invisibile: rimane lo sguardo della mdp a renderci una soggettiva disarticolata di una tale esplorazione sensoriale. Tanto più che anche la figura angelica e gigantesca che doveva giustificare il titolo del film venne meno in fase di ripresa. Bokanowski capì che era impossibile filmarla. Una visione mancata pervade l’orizzonte creativo dell’opera.
Con un atteggiamento di prossimità alla materia più che di rispetto di un eventuale filo conduttore, l’artigiano-utopista francese pratica una sistematica distorsione di lenti e obiettivi (che lui ama chiamare piuttosto “soggettivi”), rimettendo in questione le leggi dell’ottica. L’utilizzo in funzione deformante del vetro, dello specchio, del riflesso, del congegno di rimando ad altro da sé – un quasi sé stesso sgretolato – sregola le certezze ed esaspera i fenomeni di riflessione e di rifrazione della luce.
Navigando nella prevalenza del nero e dei toni scuri in genere, L’ange (o il suo fantasma) si muove ambiguamente tra umano e non umano, nel fondersi e confondersi – combinarsi – di live action e di riprese animate, di tratto pittorico e simil litografia. In un ossessivo ritorno alla stessa immagine con variazione cubista, fissità di quadro riproposta e ri-negata. Rinnegata. Il continuo intervento della luce abbaglia e ferisce mutando una percezione che non è più diretta ma sovvertita attraverso la mediazione sensibile degli oggetti “luciferi”. Modificazioni percettive frame by frame. Il colore e la sostanza dell’immagine modulano texture, granulosità, gradazione dei toni a seconda dell’interazione della luce con gli oggetti.
Bokanowski sfida il movimento alla base del cinema, ricorrendo con frequenza al fotogramma ghiacciato, still frame ripresentato più volte come materiale compositivo: una pausa che precede o segue un’azione che mai avrà (avuto) corso. In modo da non giungere mai alla completa realizzazione del movimento, consegnandoci a uno stato di abbandono estetico – estatico – nei confronti dell’audiovisione. L’attività sotterranea che permea i corpi in scena è rafforzata dalla partitura musicale della moglie Michelle, eseguita da un quartetto d’archi di non dissimile alterata energia rispetto al regime visivo, e le cui registrazioni sono state rimanipolate e ricombinate a più strati fino alla raggiunta soglia di inquieta intensità a cui già siamo spinti dalle immagini.
Confutando la convezione – troppo accettata da non esser più nemmeno discussa – secondo la quale è l’apparenza di realtà risolta nel miglior modo (con la più alta definizione, verrebbe da dire oggi) a dover essere perseguita attraverso gli strumenti a disposizione (ottiche e mdp), in Bokanowsi prevale una maniera di trattare il materiale filmico che lo avvicina alle frontiere con le arti plastiche, contro l’ontologia presunta del cinema come strumento/medium che “riproduce” la realtà.
Sabotando la percezione cognitiva e spaziale dello spettatore, disorientandolo in una immersione nel nero, rischiarata da aloni di luce e raggi di effimera portata, si raggiunge la tessitura del nostri incubi, la grazia dell’instabile. L’angelo, in fondo, è un “niente da trovare”.
<<L’idéal, ce serait des objectifs sculptables, pour que les réalisateurs et les chefs-opérateurs puissent complètement sculpter l’image, comme ils le font par exemple avec la lumière.>>
Salvatore Insana