Cosa cambia in un testo dal romanzo alla trasposizione cinematografica? Venite a leggere alcune interessanti riflessioni di Teresa Siciliano.
Il cinema, soprattutto americano, ha spesso tratto ispirazione dalla letteratura. Non esistono generi più lontani, eppure, appena esce un romanzo di successo, immediatamente si comincia a pensare a come trarne un film. Il caso più emblematico fu quello di Via col vento: ci vollero appena tre anni prima di vedere Rossella e Rhett sullo schermo e questo nonostante tutti i sondaggi e i provini per trovare gli interpreti.La difficoltà che si trovano davanti sceneggiatori e registi è ovviamente il fatto che i libri sono basati sulla parola, i film sulle immagini e che di regola c’è disparità di concezioni ed interessi fra l’ambiente letterario e quello cinematografico. Basta pensare al finale di Via col vento. Il libro finisce con la rottura fra i protagonisti: la Mitchell non amava Rossella e quindi la punisce con la perdita del marito proprio nel momento in cui finalmente scopre di averlo sempre amato. Rhett, da parte sua, è un uomo distrutto dalla perdita della figlioletta e dal fallimento di tutta una vita all’insegna della divergenza: ecco perché torna a Charleston per cercare la pace e riconciliarsi con la sua famiglia,ormai incapace di ricominciare da capo con la moglie. L’ennesimo “domani è un altro giorno” di Rossella è solo “lo spirito del suo popolo che non riconosce la sconfitta anche quando se la trova di fronte”, come dice esplicitamente la Mitchell, tanto perché non ci siano dubbi. Il film, invece, vuole far trionfare Rhett, che volta le spalle alla moglie, esclamando “francamente me ne infischio” (traduzione italiana edulcorata dell’originale, che in America suscitò molte polemiche)e ricacciandola indietro nel ruolo passivo e sottomesso, da sempre riservato alle donne.Peggio succede nel Nome della rosa, anche se bisogna ammettere che l’impresa di trasformare in film un volumone, lungo quasi quanto il romanzo della Mitchell, ma fatto non di amori e avventure, bensì di teologia, filosofia e politica, presentava delle difficoltà forse insormontabili. Però gli errori sono davvero troppi: si comincia con la lotta furibonda dei contadini sotto le mura dell’abbazia per accaparrarsi gli scarti alimentari buttati giù dalla finestra, cosa che non rende merito alla funzione economica svolta dai benedettini nel medioevo (non per niente il loro motto era “ora et labora”) per poi proseguire inserendo una statua rinascimentale nel 1327. Guglielmo dà prova del suo metodo induttivo come fa Sherlock Holmes in Uno studio in rosso, ma, mentre nel libro riesce a capire (o, se preferite, indovinare) che i monaci stanno cercando Brunello, il cavallo dell’abate, nel film con lo stesso sistema indica ad Adso dove sia il gabinetto di cui ha urgente bisogno. Confesso che all’epoca, nel buio della sala cinematografica, feci un salto sulla sedia: ma non si poteva trovare qualcosa di meglio? Si tagliano quasi tutte le discussioni filosofiche, si uccide un monaco di meno (cosa grave dal momento che nel mondo ebraico-cristiano il numero sette è significativo), si amplia ovviamente la storia d’amore, si trasforma totalmente la figura storica di Bernardo Gui, che viene inopinatamente assassinato in una scena sanguinolenta, si mette in scena un vero processo per eresia e stregoneria e soprattutto, soprattutto una rivolta popolare per (udite!udite!) salvare la strega, come se superstizione e demonologia fossero caratteristiche esclusive della chiesa. Non parliamo poi di una strana biblioteca a scale, di cui non c’è traccia nel romanzo, e infine della stravagante identificazione della contadina amante di Adso con la rosa del titolo, con un improvvido capovolgimento della filosofia nominalistica, alla base del romanzo.Certo il film ha una sua gradevolezza, sempre che si riduca tutto ad un puro giallo. Donde lo straordinario successo universale.Non che questo tipo di adattamento della trama al mezzo cinematografico sia raro. Guardiamo due film, tutti con protagonista Laurence Olivier, tratti da romanzi ottocenteschi importanti. In La voce nella tempesta di Wyler (orrendo titolo italiano) si incentra la vicenda su Heathcliff e Catherine, trasformando il loro sentimento in una storia di amore romantico che valica le barriere dello spazio, del tempo e della morte. Tagliare l’ultima generazione, quella di Cathy e Hareton, obbediva forse ad esigenze di brevità, ma distorceva profondamente il messaggio della Brontë, che senza dubbio auspicava una fusione fra gli Earnshaw e i Linton all’insegna della forza, ma anche della civiltà. Era questo l’ideale che voleva proporre ai suoi lettori.Perfino peggio vanno le cose in Orgoglio e pregiudizio di Leonard, dove Darcy viene trasformato in un gentiluomo timido ed impacciato, senza quasi traccia della sicurezza orgogliosa, tratteggiata dalla Austen, cosa che rende incomprensibile il titolo.È molto difficile prendere posizione sull’argomento, ma, secondo me, per quanti cambiamenti si voglia o si debba introdurre in una trama di origine letteraria, non si dovrebbe mai tradire lo spirito infuso in essa dall’autore. A meno che non si voglia fare qualcosa davvero di totalmente diverso.