Filari pettinati di viti si affacciano sui fianchi terrosi della collina. Il sole appena velato intiepidisce l’aria umida. Di lontano il ruggito raggrinzito di un trattore, lo scampanellio di una bicicletta, voci indistinte di contadini al lavoro.
Si sta, come d’autunno, sugli alberi, le foglie. Ho in mente questi versi e li ripeto come un mantra. Accoccolato su uno sperone roccioso mi guardo intorno, lasciando che ogni cosa penetri e scompaia dentro.
Tu sai che non indosso corazza, non riesco a elaborare difese efficaci. Lo sai che le emozioni tracciano segni sulla mia pelle come l’aratro solca il campo. Se sono gioie mi allagano l’animo di pioggia fertile; se sono affanni producono lacerazioni, cicatrici talvolta indelebili. Eppure trafiggi senza pietà, ben conoscendo la sofferenza che scavi. Lo fai convinta di cauterizzare il mio scontento, come se dalla lama incandescente potesse rinascere la fenice del desiderio. Ma non è così che si guarisce un amore che si dibatte tra slanci e ripensamenti, esaltazioni e mortificazioni, miraggi e disillusioni.
Più di tutto, mi dai tormento perché non hai il coraggio di riconoscere che quanto provi per me è ben poca cosa. E per questo motivo mi hai abbandonato alla mercé di un dispiacere che ha spalancato il vuoto sotto i piedi. Forse temi un gesto definitivo, a frantumare per sempre l’incanto perduto. Per cui mi avvilisci, mi annichilisci, in modo da intrappolarmi in un angolo, impedendo ogni possibilità di fuga oltre l’arco delle tue braccia. Come un cane alla catena io fremo per l’amarezza e la collera che procuri, eppure non sono capace di andare al di là dell’incertezza sui movimenti da compiere per sottrarmi. E quindi rintano in me stesso cercando faticosamente un’ultima salvezza, per non smarrire del tutto la ragione e il sentimento.
Per oggi resto qui, su questo bricco sperduto a guardare i cascinali e i campi affondati nella foschia, a respirare questo odore sfrigolante di castagne arrostite che si leva da chissà dove. Uno stormo di uccelli dalle colline di fronte attraversa stridendo la valle. Il sole sfuma sull’arancione e la mente si tinge di viola. Le ombre si distendono come per liberare i pensieri più oscuri. Il principio del racconto l’ho dimenticato e la trama non è più chiara. Mi getto a capofitto nel presente, sperando che gli istanti si facciano morbidi come acini d’uva e si confondano nelle ore fuori del tempo.
Almeno fino a domani.
Almeno fino a domani.
(6 Ottobre 2004)