Successe tutto molti anni fa, negli anni dell’adolescenza. Probabilmente qualcosa è successo anche prima, ma la mente umana talvolta è capace di rimuovere determinate cose, e ricordarle, ahimé, non è così semplice.
Io e la mia amica Federica eravamo, diversamente da molte altre ragazzine della nostra età, avvezze ad inforcare la bicicletta e fare lunghe pedalate assieme negli assolati pomeriggi d’estate, dopo i compiti, dopo le telenovelas, incuranti dell’afa. Come direbbe mia nonna, siamo giovani, non sentiamo nemmeno il diavolo.
Abbiamo avuto la fortuna di non essere schiave del cemento: potevamo andare in diversi luoghi di campagna che erano vicini ad entrambe le nostre abitazioni. Il fattaccio successe proprio vicino casa mia. Forse un presagio, chissà.
Quel giorno faceva davvero troppo caldo, ed il sole a picco sul viso ci impediva persino di chiacchierare, spegneva sul nascere ogni pettegolezzo sull’ennesimo ragazzo carino di turno. Decidemmo allora di riposarci in un sottopassaggio, che collega casa mia alla campagna. Appoggiammo le nostre bici contro la balaustra e iniziammo a leggere le scritte sul muro, cercando qualcuno di nostra conoscenza tra i vari nomi scritti a bomboletta, e approfittandone per recuperare il fiato.
Il momento che precedette la mia prima esperienza ravvicinata paradossalmente non lo ricordo, ma so che l’urlo che cacciai dovette essere talmente forte che qualcuno avrebbe sicuramente sentito. Ma nessuno si accorse dell’orrore che traspariva dalla mia voce. Nel momento in cui feci per recuperare la mia bici, vidi la cosa più raccapricciante, a mio avviso, del mondo dell’entomologia. Non so dire a che specie appartenesse, ma era la “cavalletta” più grossa che avessi mai visto, appoggiata al manubrio. Per un istante fui talmente vicina da vederla con precisione, il colore verde brillante, le lunghe zampe accovacciate, il piccolo testino che mi osservava. In quel momento penso che la pelle d’oca che mi pervadeva tutto il corpo fosse talmente alta e prolungata che non si esaurì brevemente. Ricordo solo il calcio che diedi alla bici in preda all’isteria più totale e scappai di qualche metro, sperando che la “cosa” si stufasse ben presto di riposarsi proprio sulla mia bicicletta. Non so dire esattamente quanto tempo passò, ma so che tremavo talmente tanto da non riuscire poi, una volta liberata dall’incubo, nemmeno a pedalare dritta. Da quel momento evitai con cura di passare di lì, soprattutto a piedi, e sperai vivamente di non trovarmi più in un simile delirio.
Cominciai quindi a pensare da cosa potesse derivare quella mia fobia così grande per quelle bestiacce: cercavo di rassicurarmi pensando che sono innocue, non pungono, non mordono, mangiano solo erba e saltano libere. Ma nemmeno pensare ai cartoni dell’ape Maia serviva. Il terrore era troppo grande. Quella degli insetti è una paura, assieme a quella per gli ascensori, che ho da sempre. Non ci vuole uno psicologo per capire che avrò avuto qualche trauma infantile, che ho rimosso, ma non passa mai, tanto da ripresentarsi, anni dopo, sempre nel solito punto.
Passavo con la macchina, era giugno, la natura era appena sbocciata, e viaggiare coi finestrini un po’ abbassati non ha eguali, verso sera, appena dopo il tramonto, con il profumo del grano che entra e ti pizzica lievemente le narici. Insomma, di anni ne erano passati abbastanza, ero quasi una donnina matura, conscia di me e libera dalle paure. Se, pensavo. Non so per quale astruso motivo mi venne voglia di tirare su il finestrino, forse la corrente iniziava a darmi fastidio alla gola; fatto sta che dopo alcuni minuti, girandomi, la rividi, ancora lei, grossa, orribile e con quelle maledette antenne che, ricordo ancora, si muovevano a destra e sinistra. Si attaccò al finestrino, quello lato guidatore, proprio mentre passavo dallo stesso maledetto punto in cui la vidi anni prima. Una persona normale, attivando i tergicristalli ( perché poi, la stronza, pensò bene di migrare nel finestrino davanti, giusto per farsi osservare meglio), l’avrebbe catapultata via, ma io no.
Incominciai allora ad urlare, urla che nell’abitacolo della macchina sembravano quelle di mille persone che mi bombardavano i timpani. Lasciai il volante, fermando la macchina dove non so nemmeno ( ero sotto casa, tra l’altro), e, chiudendo gli occhi, passai nel sedile posteriore, sempre continuando ad urlare, come se le mie urla la potessero spaventare e lo spostamento d’aria la facesse andare via, e mi accovacciai per non so dire quanto tempo, con le orecchie tappate e il cuore a mille.
Non sapevo come sarei potuta scendere dalla macchina, come avrei potuto affrontare quella cosa che mi terrorizzava all’inverosimile. Ma in un impeto di conservazione della specie, inforcai la borsa, presi il telefono e riuscii a chiamare mia madre che, spaventata a morte dal mio tono di voce, credeva mi stessero ammazzando lentamente con un coltello ficcato in gola. Quando arrivò e mi vide tremante e spaventata dietro, mi prese a scopate sulla schiena, dopo aver tentato per più di venti minuti di staccare il mostro dalla macchina, che si vede si stava troppo divertendo nello spaventarmi a morte...
Queste stagioni di mezzo, quindi, per me sono un incubo, ho paura di trovarmele addosso mentre sono fuori a godermi gli ultimi tepori d'estate, o i primi tepori di fine primavera. Potrei trovarmela ancora in auto e svenire mentre guido, o trovarmele in ufficio, come è già capitato, nel silenzio di una tranquilla mattinata di mansioni da svolgere.
Ok, lo so, ho bisogno di un bravo psichiatra...:)
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