Magazine Diario personale

L’anticamera dell’inferno

Da Aquilanonvedente

infernoVenerdì 6 febbraio 2015, due giorni prima del ricovero e tre giorni prima dell’intervento chirurgico grazie al quale sono stato sgozzato come una vittima dell’Isis, mi sono dovuto recare all’ospedale per mettere il Picc.

Dovevo recarmi al reparto di oncologia dell’ospedale di Piacenza, dove c’è un’unità specializzata nel posizionamento di questi cateteri, che fa queste operazioni anche a domicilio. Sono molto bravi in questo lavoro; io non ho sentito assolutamente niente, eppure mi hanno inserito un catetere di 39 centimetri, collegato a un rubinetto esterno posizionato nella parte interna del braccio destro.

Avevo terminato di lavorare il giorno prima, a mezzogiorno, salutando i colleghi. La voce in azienda si era diffusa: ero uno dei malati di cancro. Vivevo in una specie di trance, non volevo credere a quello che mi era capitato (perché proprio a me? si chiedono tutti i malati di cancro).

Ricordo che quella mattina nevicava a più non posso. Arrivai all’appuntamento con oltre un’ora di ritardo, perché la via Emilia era bloccata per chilometri. In altre occasioni mi sarei messo a giocare a palle di neve…

Arrivato all’ospedale di Piacenza, mi diressi verso il reparto di oncologia, che ha sede nell’ospedale vecchio. La palazzina dell’oncologia è colorata di arancione; ci sono le tende a cappottina alle finestre; visto dall’esterno sembra quasi una SPA, dove trascorrere le ferie tra un massaggio e una nuotata.

Attraversai corridoi vuoti e desolati verso l’ambulatorio di destinazione e a un certo punto passai davanti al corridoio di un reparto di degenza.

Non mi scorderò mai quell’immagine, che si è conficcata nella mia mente più di Excalibur.

Se voi osservate un normale reparto di degenza in un ospedale, vedrete che nel corridoio vi sono persone chi girano, personale sanitario e degenti; vedrete che il corridoio è occupato da carrelli, sedie e altro; vedrete, insomma, che al suo interno c’è vita, anche se per qualcuno appesa a un filo.

Lì non c’era niente di tutto questo.

ospedale

Il corridoio era illuminato ma completamente deserto. Le porte delle stanze di degenza sembravano aperture verso il nulla. Una sola persona, appoggiata al muro e vestita normalmente, stava telefonando.

Quell’immagine è rimasta fissata nella mia memoria come l’anticamera dell’inferno.

Ma non l’inferno dell’aldilà, quello nel quale mi auguro che stiano tutti quei milioni di persone che nella loro vita si sono dedicati con passione e perseveranza a fare dal male agli altri. Parlo dell’inferno dell’al di qua, nel quale piombano i malati di cancro.

Allora io non sapevo cosa sarebbe stato questo inferno. Non sapevo nemmeno se la mia prognosi sarebbe stata sfavorevole (nel qual caso avrei avuto davanti circa otto o nove mesi di vita), oppure favorevole (che non vuol dire che si sopravvive, ma che si hanno alcune probabilità di sopravvivere). Io non uso il termine guarigione, perché condivido l’opinione di chi sostiene che dal cancro non si guarisce. Il cancro regredisce; si possono non avere recidive, ma la guarigione è tutta un’altra cosa.

Allora non sapevo cosa dovevo aspettarmi nei mesi a venire, e in un certo senso sono anche stato fortunato. L’intervento chirurgico e le terapie successive (per le quali porto ancora le conseguenze) sono state tutto sommato leggere, in confronto ad altre.

Ho visto persone che facevano iniezioni di chemioterapici che erano il doppio delle mie e le facevano non una volta alla settimana come il sottoscritto, ma due o tre volte. Ho visto persone alle quali al venerdì applicavano al torace un marsupio con una bomboletta attaccata al Picc che per tutto il fine settimana sparava nel loro sangue la chemio. Ho visto persone che hanno effettuato radioterapie molto più dolorose e devastanti della mia. E forse alcune di queste persone non ce l’hanno nemmeno fatta.

Io ho smesso di mangiare; sono stato ricoverato in ospedale; ho vomitato; ho avuto la pressione così bassa che non mi reggevo in piedi, ma grazie a Dio, ai medici, alla natura o a chissà cos’altro sono ancora qui, e spero di restarci per altri trenta o quarant’anni (…).

Ma il mio pensiero va a quelle persone che non ce l’hanno fatta. A quella signora giovane, che sembrava quasi una ragazzina, minuta, che era coricata su una barella nel corridoio dell’unità di radioterapia il giorno della mia prima seduta e che se ne stava tutta rannicchiata, come se cercasse di ritrovare quella posizione che tutti noi teniamo prima di nascere e che forse ricerchiamo anche quando ce ne stiamo andando.

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Per questo, a costo di sembrare cinico, ho detto e ripeto che da parte di altre persone al di fuori del mio nucleo familiare, non accetto e non ascolto lamentele per malanni che siano inferiori all’infarto.

Che ognuno si tenga i malanni suoi. Io ne ho abbastanza dei miei.

E oggi pomeriggio me ne vado con la “piccola” e una sua amica in un centro commerciale, perché lei vuole vedere i saldi, e le sgancerò anche un cinquantino, perché chi cacchio se ne frega dei soldi (mi piange il cuore… un cinquantino… non sarebbe forse meglio un ventino? No, non ditemi un centone, per favore…).

E al diavolo l’inferno.

Viva la vida!



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