Cercherò
di renderla semplice e breve, perché, a trattarla come si dovrebbe,
la questione dell’apocatastasiprenderebbe
pagine e pagine, mentre qui la evoco solo per la sua relazione con la
peraltro controversa faccenda dell’illimitatezza
della
misericordia divina, che troverebbe una insanabile aporia nel limite
impostole dal fatto che Dio sarebbe anche somma giustizia, con quanto
di inesorabile v’è
nella somministrazione della pena, soprattutto se eterna.
C’è
chi afferma, in realtà, che l’apocatastasi
sia da intendersi come il compiersi della definitiva sovranità di
Dio sulla totalità dell’Essere, nella quale, dunque, non avrebbe
senso rappresentare alcun genere di contraddizione o, ancor peggio,
di conflitto tra piena giustizia e infinita misericordia. Di fatto,
tuttavia, pare di piana evidenza che il Sommo Bene non possa
esercitare la sua piena sovranità sulla totalità dell’Essere
senza che il Male sia annullato nelle cause e negli effetti, e che in
sostanza non possa esservi apocatastasi laddove il peccato lasci
traccia di sé fosse pure nella sola espiazione della colpa. Tanto
basterebbe a quanto ci serve, ma nel
caso vogliate approfondire, vi suggerisco quanto ne ha scritto Vito
Mancuso ne L’anima
e il suo destino
(Raffaello Cortina, 2007) e quanto ne ha detto monsignor Manfred
Hauke in una lectio
che non faticherete a trovare su Youtube (Apocatastasi
della Chiesa antica),
meglio se dopo aver dato una scorsa al lemma su Wikipedia,
tutto sommato abbastanza precisa e con un discreto corredo
bibliografico a supporto.
A renderla semplice e breve, invece, qui
basterà dire che, se fosse mantenuta la promessa che alla fine dei
tempi vi sarà una restaurazione (αποκαταστασεως)
di tutti e tutto in Dio (At
3, 21), dovremmo aspettarci una redenzione universale che escluda
ogni possibilità di dannazione eterna: per quanto a lungo possano
durare, infatti, i sæcula
sæculorum
sono tempo di cui è certo si avrà una fine, oltre la quale, perché
la promessa sia mantenuta, anche il più grave peccato dovrà trovare
perdono, al punto che lo stesso
Satana si ravvederà e si convertirà, sicché l’inferno
che il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce come «separazione
eterna da Dio»
(1035) non
avrebbe senso se non nei sæcula
sæculorum che
danno la misura di una «eternità»
che è comunque un concetto temporale,
ma non dopo di essi, quando i tempi avranno avuto la loro fine
Volendo, ve ne sarebbe abbastanza per dare una solida base teologica
all’infinita
misericordia divina che è il gonfalone di questo pontificato, e che
fa impazzire gli orfani di Ratzinger, nutriti per otto anni dalla
solida certezza che a ogni peccato debba necessariamente
corrispondere una pena, salvo il pentimento che ristabilisca la
perfetta coincidenza di Buono, Giusto e Vero: un misericordia
infinita rende superfluo il pentimento, con quanto ne consegue in
detrazione alla Verità, in sospensione della Giustizia e, ciò che è
peggio, in perdita di quella cogenza precettistica che sta nel Bene
come retta via da seguire per evitare punizioni. Che fine potranno
mai fare i comandamenti di un Dio che, dovendo reintegrare tutti
nella totalità dell’Essere
di cui sarà sovrano, sappiamo che perdonerà comunque ogni peccato?
Se non è vuoto, l’inferno
dura appena per l’eternità che precede l’apocatastasi? E chi
sarà persuaso dal non peccare, o dal pentirsi dopo aver peccato,
sapendo che un Dio infinitamente misericordioso alla fine dei tempi
chiuderà un occhio?
Il problemino – perché un problemino c’è –
nasce dal fatto che l’apocatastasi è un’eresia ripetutamente
condannata nel corso della storia della Chiesa, ma nessuno riesce a
costruire per Bergoglio un capo d’accusa che la additi a substrato
della sua pastorale. Probabilmente neanche sanno cosa sia.
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