Quell'aquila ferita, volava in un cielo terso, in una maestosità incrinata dal dolore che provava. Ondeggiava, fluttuava per riconoscersi nell'animale regale che la natura gli tributava, ma ad ogni virata le ali altere si piegavano riflettendo la condizione di grave disagio. Le sue prede correvano a nascondersi nei minuti anfratti delle rocce, ma lei non guardava, non accennava a scendere, non poteva, non così. Era ancora una regina lassù, sarebbe riuscita a volare ancora un po', anche in quelle condizioni doveva mostrarsi e dimostrare che era sempre lei, la regina dei cieli. Un po' come gli uomini orgogliosi che non rinunciano a stare ritti nelle loro disgrazie. Perché non vogliono mostrare il fianco a chi ne approfitterebbe subito per aggredire, scavalcare, calpestare. Non c'è molta differenza tra una regina che sta morendo e vuole fare il suo ultimo maestoso volo e un uomo che si sta sfacendo nella vecchiaia. Entrambi hanno l'ultimo guizzo, una bordata, vanno all'attacco. Per poi cadere sfiniti, finiti, in attesa degli avvoltoi pronti a cibarsi di loro.
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