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In questi ultimissimi anni sembra che si stia assistendo a una specie di rinascita (o nascita?) del cinema sardo, grazie ad autori e registi che finalmente riescono a uscire da nicchie di produzione e di distribuzione per arrivare al grande cinema.
Uno di questi è certamente Paolo Zucca, che dopo un certo numero di cortometraggi approda al grande schermo con L'arbitro, che affonda le proprie radici proprio in uno dei suoi cortometraggi.
La struttura narrativa si articola su due vicende parallele. Da un lato quella di Cruciani (Stefano Accorsi), un arbitro internazionale integralmente votato al suo lavoro con l’ambizione di arrivare a dirigere la finale degli Europei. Dall’altro, quella di due squadre scalcinate del Nord Est della Sardegna, il Montecristu e l’Atletico Pabarile, impegnate in una competizione senza esclusione di colpi che coinvolge l’intera cittadinanza dei due paesini.
Mentre per Cruciani le cose non vanno esattamente come aveva sperato, le due squadre locali arrivano alla sfida finale, anche grazie al fatto che il Pabarile si rafforza per il ritorno a casa di un emigrato sardo in Argentina, Matzutzi (Jacopo Cullin). In questo percorso a ostacoli, le storie dell’arbitro Cruciani e quella delle due squadre sarde si incroceranno in un esito del tutto inaspettato.
L’intero film è girato in bianco e nero, scelta che – come è naturale – conferisce un sapore epico e al contempo malinconico alla storia. Il registro narrativo – che si avvale parzialmente dell’uso del dialetto sardo – si muove tra uno stile quasi da fotoromanzo e uno da neorealismo, tra una dimensione epica e una prosaica, tra una linea drammatica e una comica. Il tutto declinato in modo tale da risultare costantemente sopra le righe, tanto da ricordare a tratti lo stile di Ciprì e Maresco.
Ne viene fuori un ritratto sostanzialmente impietoso non solo del calcio, ma dell’umanità tutta, rispetto alla quale il calcio rappresenta solo uno specchio amplificato. Ecco perché Paolo Zucca sceglie di aprire il suo film con una citazione di Albert Camus che recita: “Tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio”.
Il tono per certi versi da operetta ridimensiona l’amarezza di fondo che questa vicenda ci trasmette, ma non nasconde nulla della meschinità e dell’immoralità umana, pur mitigata dallo sguardo affettuoso e comprensivo con cui il regista guarda ai suoi personaggi, che in fondo hanno una genuina aspirazione all’idealità.
Il film ne risulta complessivamente dotato di originalità e freschezza (grazie anche al contributo della spumeggiante Geppi Cucciari), pur non avendo particolari pretese. E di questo credo che il cinema italiano abbia profondamente bisogno.
Voto: 3,5/5
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