Magazine Poesie
Ho sempre considerato la mia stanza un rifugio sicuro nel quale nascondermi quando il mondo gira troppo velocemente per essere seguito, un rifugio nel quale riesco a fermare il tempo, come in una fotografia, per riflettere, pensare, capire, prima di buttarmi di nuovo a capofitto. Queste quattro mura mi hanno visto piangere, ridere, sognare, tremare, morire e poi risorgere dalle mie ceneri. In questi anni l’ho rivoluzionata più volte, è stata spesso lei la prima a pagare le conseguenze del mio umore instabile. Solo la mia scrivania, l’amica più fedele che ho, non l’ho mai spostata. È da sempre immobile, nello stesso angolo, per evitare di trovarmi disorientato, quando ho bisogno di lei e devo raggiungerla nel buio della notte per trovare conforto. Si affaccia su un oceano di frasi e foto che hanno rivestito tassello dopo tassello un’intera parete.
L’adoro perché su quel legno sbiadito ho dato vita a fiumi e fiumi di parole sussurrate ad aride pagine. Ho scritto così tanto che credevo che prima o poi avrei dovuto smettere perché sarei rimasto senza altri termini da consumare. Ho scritto perché è l’unico modo che conosco per tirare fuori il male che ho dentro, per renderlo innocuo. Per impedirgli di farmi paura. Solo così sono riuscito a tramutare valanghe in fiocchi di neve, tempeste in pioggerella, labirinti in biforcazioni. Mi è bastato aggiungere qua e là piccole esuberanti tracce di allegria e gioia per star meglio, sperando di provarle davvero quelle emozioni prima o poi. Oggi, invece, che mi trovo nell’arcobaleno dei miei giorni, e il sole si è insinuato illuminando tutto ciò che prima era velato dalla malinconia, la penna tace. Non mi era mai successo. Mi sono seduto e ho frugato in tutti i diari, i quaderni e i fogli senza trovare risposta. Poi ho guardato la parete e ho notato come nelle ultime foto ci sia un dolce sorriso sulle mie labbra. Lì ho capito tutto: la felicità non si può raccontare, soltanto vivere.