L’argomento dai casi marginali

Creato il 20 febbraio 2014 da Alby87

Oggi parliamo del cosiddetto argomento dai casi marginali (argument from marginal cases). Si tratta, fondamentalmente, di uno degli argomenti chiave della “filosofia antispecista”, e di solito si espone in questa forma:

“Poiché non ci sono differenza psicologiche fra un neonato o un disabile mentale grave (i ‘casi marginali’) e alcuni animali , per essere coerenti dovremmo trattare allo stesso modo le due categorie.”

Implicitamente, prosegue:

“Poiché noi consideriamo neonati e disabili mentali soggetto di diritti, allora dobbiamo farlo anche con gli animali”.

Di primo acchito, somiglia un po’ alla prova ontologica dell’esistenza di Dio: dentro di te avverti chiaramente che c’è qualche vizio enorme in questo ragionamento; quando però devi dire qual è ci vuole tanta fatica per capirlo e metterlo in parole in modo rigoroso. Insomma, è un ottimo sofisma.

Una prima osservazione che ci permette di capire le pecche dell’argomento è che la sua seconda parte, che piace particolarmente agli antispecisti, si basa su una premessa non indiscutibile, e cioè che  noi consideriamo neonati e disabili soggetti di diritto. Preso face value, l’argomento dai casi marginali sostiene egualmente tanto la posizione “dobbiamo dare diritti agli animali” quanto quella “dobbiamo toglierli ai casi marginali”. Di fatto, l’argomento vive all’interno di un determinato sistema assiomatico sull’attribuzione dei diritti, messo in dubbio il quale esso non ha più cittadinanza; dunque ha il difetto fondamentale di non permettere di per sé la fondazione di alcun sistema etico. Deludiamo subito Singer su questo aspetto, non costruisci una morale solo o principalmente sull’argomento dai casi marginali.

Ma anche restando all’interno della morale comune, e quindi prendendolo semplicemente come una critica ai nostri comuni assunti morali, l’argomento non funziona lo stesso. Perché? Esattamente per quelle ragioni che avvertite intimamente appena lo leggete.

Autoanalizzatevi, qual è la prima cosa che avete pensato? Magari anche se sembra stupida, non importa.

Vi dico la mia: “Ma come, tu vuoi fare una norma che coinvolge tutti gli esseri umani standardizzandola sui casi ‘marginali’? È come vendere solo letti standardizzati su un altezza di due metri e novanta perché c’è anche ‘qualche’ umano con quella statura!”

Questa idea si affaccia subito alla mente; la prima intuizione che abbiamo è che chi propone l’argomento stia solo andando a cavillare: la normalità per un essere umano è essere dotato di consapevolezza infinitamente superiore a qualsiasi animale, ma gli antispecisti vanno a cavillare su casi che non rappresentano neanche lontanamente la norma.

Detta così è un’obiezione ingenua, ma le obiezioni ingenue possono nascondere, al fondo, una verità prima più radicale e solida. In particolare alla nostra obiezione ingenua si risponderà subito che “ma allora se trovassi una scimmia superintelligente la tratteresti comunque da animale qualunque, anche se devia dalla norma?!”, quasi che avere espresso quella determinata norma poi ci vincoli ottusamente ed a vita a rispettarla anche di fronte ad evidenze o casi particolari che la contraddicano… Se incontriamo qualcuno alto due metri e novanta, possiamo costruire un letto apposta per lui, ma non standardizzeremo tutti i letti della terra su un’altezza di due metri e novanta.

In effetti l’errore nell’argomento sta nel considerare la norma come puramente astratta dalle questioni pratiche che regolamenta, e cioè presa nella sua assoluta e kantiana purezza formale: la norma morale deve essere perfetta, non deve racchiudere la quasi totalità dei casi esistenti, bensì la totalità assoluta dei casi esistenti. Di più, anche dei casi che non esistono, anche perfino eventuali esperimenti mentali! Quindi anche un solo caso teorico che contraddica la norma fra crollare la norma, Kanzi fa crollare la norma, per una scimmia geniale su tutta la terra dobbiamo ridefinire tutti i rapporti dell’uomo con tutti gli altri animali.

È evidente che questa concezione della norma morale è del tutto fuori dal mondo, lo diceva già Aristotele:

“le azioni, quelle generali sono di più larga applicazione, quelle particolari più ricche di verità, giacché le azioni riguardano casi particolari, e occorre che la teoria si accordi con essi.”

La nostra norma non deve e non può avere la purezza formale perfetta e la generalità assoluta che ci permetterebbero di applicarla in qualsiasi circostanza  immaginabile, deve piuttosto essere una prescrizione di buon senso che possiamo applicare nelle nostre scelte di tutti i giorni. Una norma morale reale non ha questa perfezione formale; se andate ad analizzare anche la più pura e universalmente condivisa di queste norme, inizierete a scoprirne le eccezioni particolari: “non uccidere un tuo simile”.

E se siamo in guerra?

E se lui vuole uccidere me?

E se mi trovo in stato di necessità?

E se il mio simile è un feto?

E se me lo chiede lui per smettere di soffrire?

E parte il dibattito infinito.

Le norme reali non sono fatte come le vorrebbero i sostenitori dell’argomento dai casi marginali, sono una cosa molto più ambigua e molto più strettamente pragmatica. Si ispirano magari a principi astratti perfetti sulla carta, ma si concretizzano sempre, e dico sempre, in una molteplicità di situazioni e applicazioni differenti.

In particolare l’aspetto che si manca di cogliere è che nella norma morale si deve differenziare il principio ispiratore astratto dal criterio che ne permette l’applicazione.

Spieghiamoci: la norma dice che ai minori di anni 18 non è concesso il voto. Perché? Forse che appena compiono 18 anno hanno qualche magico cambiamento psicologico o ontologico? Ovviamente no: abbiamo una legge con un principio ispiratore, che è quello secondo il quale per votare bisogna disporre di una certa maturità, che quando si è troppo giovani ancora non si possiede.

Perfetto, sulla carta; dopotutto chi vuole negare che a sei anni non si abbia la maturità per votare? Ma il bambino di sei anni è un caso troppo semplice; già ci sono dei quattordicenni parecchio maturi. Come potresti mai valutare la “maturità” in modo univoco, tale da permetterti di stendere una legge di sicura e semplice applicazione? Non puoi farlo oggettivamente, il confine della “maturità” è troppo sfumato e arbitrario. Allora ti serve un criterio applicativo, ovvero un limite artificiale, ragionevole, che riproduca approssimativamente il principio ispiratore: l’età scelta è di diciotto anni.

“E se uno ha diciassette anni e trecentosessantaquattro giorni? Non è giusto che non possa votare!”, sbraitano i sostenitori dell’argomento dai casi marginali. E non si rendono di quanto sia ridicolo il loro sbraitare; se la stanno prendendo con una linea tracciata in modo puramente convenzionale, il cui unico scopo è cercare di tutelare in modo preciso l’applicazione di un criterio astratto che altrimenti resterebbe pura teoria. Da qualche parte una linea di carattere applicativo prima o poi va tracciata, ed essa avrà sempre qualche discrepanza col suo principio ispiratore, qualche “caso marginale”.

Chi ha diciassette anni e trecentosessantaquattro giorni non voterà, non tanto perché noi siamo sicuri che non ne sia in grado, ma perché lasciarlo fuori è più comodo e applicabile che mantenere commissioni permanenti che vadano a giudicare secondo criteri vaghi e arbitrari quanto sia “maturo” il nostro diciassettenne. Onestamente, io troverei piuttosto  dispendioso, inutile e anche molto pericoloso mantenere commissioni che ogni volta che compare un disabile debbano stare lì a decidere se fa parte della società o meno. Chi me lo dice che un giorno nel DSM non sarà messo il “disturbo introverso della personalità”, e la commissione non deciderà che io sono un animale fuori dalla società? Meglio tracciare una linea chiara: chi fa parte della specie umana è dentro, chi no è fuori.

A riprova di quanto dico, lo stesso Peter Singer, uno dei più accaniti utilizzatori dell’argomento dai casi marginali, nella propria teoria morale basata sull’essere senzienti come criterio di attribuzione del diritto, ha i suoi casi marginali: sono, ad esempio, i crostacei: lui non saprebbe dire per certo se e quanto provano davvero dolore, è in dubbio, ma per prudenza decide di non mangiarli. Be’, la prudenza è il suo criterio applicativo; ha tracciato una linea e li ha “messi dentro a forza” perché il criterio applicativo deve tracciare linee nette dove non ci sono. Però rispetto al principio ispiratore originale erano un caso dubbio, marginale, problematico. Ci saranno sempre casi marginali quale che sia il principio ispiratore, perché “la natura non fa il salto”; così un feto non diventa magicamente un bambino dopo tre mesi, o alla nascita; c’è un continuum. E tuttavia in questo continuum possono essere tracciate linee precise e poco o per niente ambigue: facile contare i giorni fino ai tre mesi, facile individuare il taglio del cordone ombelicale. Non significa che il taglio del cordone ombelicale abbia cambiato lo stato ontologico del bambino, significa solo che era un punto particolarmente comodo dove tracciare una “linea del diritto”, che da qualche parte, che sia fra uomo e animale, o fra animali e piante, o fra viventi e minerali, deve essere tracciata.

Quello che diciamo quando diciamo che “gli umani sono soggetto di diritto” è che abbiamo un principio ispiratore che è la ragionevolezza/linguaggio, ovvero la capacità di accordarsi secondo norme di vita in comune; ma poi ci serve un criterio applicativo di quella norma che effettivamente attribuisca i diritti in forma non ambigua. Quale migliore criterio applicativo del criterio di specie? Di sicuro non c’è nessuna possibilità che qualcuno possa confondere un uomo con uno scimpanzé, ci sono sei milioni di anni di evoluzione in mezzo, e sono la specie a noi più vicina. Il criterio applicativo della specie ricalca al meglio che può il principio ispiratore, che però resta qualcosa come “essere parte attiva della dialettica sociale”.

In sostanza, i filosofi che sostengono l’argomento dai casi marginali mancano di riconoscere la fondamentale imperfezione nell’applicabilità di ogni principio ispiratore serio, e quindi ricercano un principio ispiratore che sia anche criterio applicativo perfetto. Ma, Aristotele docet, si tratta di una ricerca senza speranza. Per questo in effetti alla fin fine è facile anche rigirare l’argomento contro gli stessi che lo usano…

E i crostacei, dove stanno?

Ossequi.



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