Magazine Cultura
a cura di
ANGELO CONFORTI
L’arrivo di Wang (2011) dei Manetti Bros.: i problemi del relativismo e dell’ermeneutica in chiave fantascientifica ed ironica
Sentinella (Sentry) di Fredric Brown è un racconto di fantascienza del 1954 che, in una sola pagina, con la straordinaria efficacia della grande letteratura, squarcia il velo dell’inguaribile antropocentrismo degli umani e ci guida nel territorio esplorato, sulla scorta del prospettivismo di Nietzsche, soprattutto da Heidegger e Gadamer: la precomprensione ontologica, il pregiudizio, il radicale relativismo di tutto ciò che esiste come terapia per il dogmatismo, l’ermeneutica invece dell’ostinata certezza di possedere una qualche verità definitiva, il pluriverso al posto dell’universo ormai troppo piccolo. Il protagonista, soldato di una guerra galattica, ormai da troppo tempo lontano da casa, nascosto nella sua trincea che è incaricato di proteggere e difendere, si lascia andare alla malinconia e alla nostalgia causate da un conflitto interminabile contro una specie aliena, pericolosa e aggressiva. Mentre è assorto nei suoi tristi pensieri, che chi legge tende a far propri, un nemico si avvicina, ma la sentinella lo sente e lo uccide. Poi, come gli è successo altre volte, si fa prendere dal disgusto per quel cadavere mostruoso, con due braccia e due gambe, con la pelle di un bianco ributtante e senza squame.Prendono spunto da una situazione analoga, anche se in parte rovesciata e più articolata per le esigenze del racconto filmico, i fratelli Manetti, con il loro L’arrivo di Wang (2011), che si divertono, all’insegna della leggerezza e dell’ironia, a giocare con gli stereotipi del genere e a problematizzare in modo radicale il tema dell’altro come necessariamente diverso, alieno e mostruoso, portandosi oltre il mirabile capovolgimento prospettico del racconto di Brown.Non è certo un film per “poeti laureati”, o per chi va in cerca dell’opera d’arte, o almeno dell’impegno sociale e civile. È divertimento intelligente, che sta decisamente lontano dalla seriosità di certo cinema volutamente e a volte artificiosamente d’autore, ma è un film che con tutti i suoi limiti allarga gli orizzonti mentali, moltiplica le prospettive e fa pensare (e non è forse questo lo scopo dell’arte, anche se minore, e di chi manifesta comunque una propria creatività e autorialità?).Costruito sui collaudati meccanismi della suspense e della sorpresa (che sconsigliano di rivelarne, anche soltanto in parte, la trama), il film si spinge sul confine tra postmodernità e incipiente nuovo realismo e ci insegna, come già aveva fatto Gadamer, che è bene non voler essere illuministi in eccesso e che è prudente non sbarazzarci troppo in fretta dei nostri inevitabili pregiudizi, in cerca di un’emancipazione altrettanto acritica del cieco e passivo adeguarsi al pensiero dominante.
Angelo Conforti
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