Oggi l’arte si fa con tutto. Ma quand’è che un oggetto raggiunge lo status di opera d’arte? Quali sono i criteri che ne fissano il valore culturale ed economico? Ne parliamo con Angela Vettese.
Nicola Maggi: Professoressa Vettese, di cosa parliamo, oggi, quando parliamo di ARTE?
Angela Vettese: «Di tutto ciò che si vuole chiamare arte. Ogni popolo e ogni epoca ha usato questo termine o termini analoghi applicandoli a cose molto diverse: manufatti, pensieri, oggetti d’uso o privi di utilità, musica da intrattenimento e musica da ascolto puro. L’unico elemento che trovo in comune è il fatto che un’entità si proponga come una espressione non necessariamente verbale né necessariamente razionale del pensiero e del sentire».
N.M.: Come avviene oggi il passaggio da semplice manufatto ad opera d’arte? Quali sono gli attori di questa legittimazione culturale?
A.V.: «In tutte le discipline esistono passaggi di legittimazione il primo dei quali sta nella convinzione dell’autore di proporre un’opera d’arte e non una prestazione utilitaristica. Poi intervengono setacci diversi, tra cui è importante la risposta dei pari e, in seguito, della committenza, diretta o indiretta che sia. In alcuni casi la lotta per farsi riconoscere è moto corrotta, come nel caso, poniamo, degli scrittori di novelle in italiano: la filiera che porta dal manoscritto a una buona casa editrice e da qui al lancio del libro, alla compravendita di recensioni e di premi, è tanto più grave quanto più piccolo il bacino di utenza. Anche l’arte visiva ha sistemi simili di selezione, nonostante la selezione sia un po’ meno criticabile perché il bacino di utenza è molto vasto, i committenti sono molti (tra musei, collezionisti, curatori e compratori internazionali) e i luoghi di giudizio anche molto sofisticati, dal bollettino universitario tipo “October” alla rivista di informazione più agile».
N.M.: Qual è oggi il ruolo dell’arte contemporanea nella società e di quali valori è portatrice?
A.V.: «L’arte visiva contemporanea ha assunto da un secolo un linguaggio sperimentale che la pone a confronto con un pubblico non del tutto popolare, come del resto accade per la musica classica-contemporanea o per il teatro d’avanguardia. Il sistema di valori che veicola credo coincida con i valori dell’uomo contemporaneo, che essendo stimolato da una maniera di vivere quasi del tutto inedita ha un estremo bisogno di capire chi è. Per di più l’arte visiva riesce a mantenere (nei casi migliori) sia legami con una certa tradizione del fare artigianale anche locale, sia legami con le pratiche accademiche; entrambi vanno a collegarsi con un mondo linguistico inedito fondato sul bricolage e sul montaggio. In questo modo l’arte visiva (ripeto, nel migliore dei casi) parla un linguaggio sia locale sia internazionale. Questo l’aiuta a veicolare valori di ogni natura, ma è ovvio che non possiamo che sperare che si tratti dei valori più alti, cioè quelli del sapere e del sentire».
N.M.: Nel 2005, per la prima volta nella storia del mercato, il totale delle aste di arte contemporanea ha superato quelli dell’impressionismo e dei classici dell’età moderna. In che modo viene fissato il prezzo di un’opera?
A.V.: «Come per ogni altro oggetto costoso, conta la rarità, la sua capacità di distinguere il compratore e parlare della sua stessa identità, la quantità e la qualità dell’interesse che ha saputo generare intorno a sé e quindi le gallerie, i critici, i collezionisti che sostengono quell’autore. Ma non dimentichiamoci che in tutto questo ha un ruolo determinante la provenienza nazionale: un’opera proveniente da Berlino vale di più di una che viene da Milano per il semplice fatto che sono testimonianze di due economie diverse, una in salita e l’altra in caduta libera. In questo senso può essere molto ricercata anche un’opera “esotica”, ma a patto che sia stata affiancata da interessi di paesi centrali. Non è cambiato molto, del resto, in queste regole, da quanto accadeva nella committenza antica. Il Rinascimento ha favorito chi lavorava a Roma, Firenze, Venezia, le Fiandre. Non ha quasi dato voce agli inglesi o agli abitanti delle terre più lontane».
N.M.: Ma come è possibile che, il più delle volte, un’opera d’arte antica costi meno di una contemporanea?
A.V.: «La risposta è almeno di due tipi: a) le migliori opere antiche NON sono in vendita perché appartengono già a musei e collezioni che non se ne privano; b) non c’è flottante, cioè le opere in vendita per ciascun autore sono troppo poche e questo genera un mercato asfittico. E’ chiaro che nella compravendita dell’arte contemporanea è anche più semplice generare effetti speculativi, cioè stampare moneta falsa, puntare su artisti che non sono particolarmente interessanti ma che hanno una produzione ricorrente, identificabile, solida, non troppo vasta ma continua, insomma tutte caratteristiche del prodotto ideale».
Angela Vettese, critica d’arte, dirige dal 2001 il corso magistrale di Arti visive presso la Facoltà di Design e Arti dell’Università IUAV di Venezia, dove insegna Teoria e critica dell’arte contemporanea.
tratto da Collezione da Tiffany
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