Discorso analogo per Giorgio Gaber. La carica umana di simpatia e la comunicativa mi erano note fin dalla fine dei ’60, quando in età prescolare ascoltavo le stralunate Torpedo blu e Il Riccardo. In seguito uscì dal fuoco della mia attenzione e l’eco dei suoi lavori teatrali prese a giungermi solo da lontano. Per non dire dell'articolata visione politica ed esistenziale che proponeva. Erano anni, quelli sul limitare degli ’80, in cui appena adolescente faticavo anch’io a collocarmi tra l’impegno e il non so (più il secondo che il primo): eppure la voce recitante di Gaber toglieva respiro al mio desiderio di musica come (appunto) arte dei suoni. I suoi spettacoli, l'ampio spazio riservato ai monologhi, c’entravano più con il teatro sociale che con la canorità. Lo ammiravo come interprete geniale, ironico, aspro, a volte impietoso, ma questo prevalere della parola sulla musica me lo faceva apparire “altro”. Più Brecht che canzone d'autore.
Lo ammetto: il mio era un giudizio scentrato, fondato su più di qualche pregiudizio (artistico) e una certa impreparazione culturale. Negli ultimi anni ho (ri)visitato molti dei suoi lavori inquadrandoli in un genere, quello del teatro-canzone, in cui parti recitate e cantate prendono forza vicendevolmente senza in effetti sopraffarsi. Questione di cambiamento di gusti, di maturazione personale, di attribuzione di un senso che prima avevo messo tra parentesi. Temi civili come quello dell’uomo schiacciato dalla società dei consumi, oppresso dalla politicizzazione strumentale, costretto a fare i conti con la fine delle ideologie, rimangono attualissimi in questi anni affollati di miserie. Ma anche le esperienze, i dubbi e i tormenti privati che inducono ognuno di noi a stendere un bilancio quantomeno disarmato della propria vita.