Sono nipote di macellaio equino, ho passato tutte le mattine della mia prima infanzia (fino ai 6 anni) tra la macelleria e il retrobottega. Per par condicio, sono pure nipote di fruttivendolo, però dai nonni fruttivendoli andavo nel pomeriggio, quando c'era pochissimo lavoro: la nonna restava a presidiare il negozio lavorando all'uncinetto e io andavo con il nonno al parco del Castello.
La macellieria invece l'ho vissuta parecchio, anche perché mi piaceva un sacco quell'ambiente tutto rivestito di marmo bianco, il profumo della carne fresca, l'andirivieni delle persone. Mi sembra di essere stata testimone di un'epoca ormai dimenticata, in cui la gente andava di mattina a comprare ciò che avrebbe cucinato durante il giorno, i supermercati non tenevano ancora ortofrutta e carne, non c'era l'abitudine di surgelare. Per contro, non c'erano i banconi frigo e quindi mio nonno doveva fare la spola tra il negozio e la cella frigo, con la conseguenza che il continuo caldo-freddo gli ha causato e continua a causargli problemi. Non c'era il sottovuoto, quindi la carne la dovevi tagliare giusta e sul momento, altrimenti la buttavi. Non c'era la cultura dei cibi buoni e genuini, quindi mio nonno vendeva la sua meravigliosa carne per una miseria (oltretutto, prima della mucca pazza, la carne di cavallo era da poveracci o da malati di anemia).
Mio nonno ha cominciato questo lavoro a 6 anni, lavorando in un macello (chi ha un figlio di 6 anni pensi a tutte le volte in cui ha cercato di ritardare il suo incontro con la morte raccontandogli pietose bugie sulla provenienza del coniglio o del pollo nel piatto). Pian piano, grazie alla sua passione e all'incontro con quel panzer di mia nonna, ha aperto una sua macelleria e si è creato una clientela affezionata, a cui riservava scherzi, attenzioni e la migliore carne possibile.
Quando ha chiuso la macelleria, è andato ad aiutare un giovane macellaio ad avviare la sua macelleria equina, oggi la migliore di Pavia e provincia.
Quando nel 2003 è stato operato di tumore all'intestino, nel delirio postoperatorio mi raccontava in quante parti è divisa la bistecca e come bisogna trattarla perché sia perfetta.
Nella mia famiglia, cucinare la carne è quasi un rito sacro. Si cucina di preferenza la carne di equino, con un'eccezione per quella di bovino del signor Sirtori. Le altre carni o le trattiamo con sufficienza (tipo il pollo) o ci asteniamo dal cucinarle perché non ne abbiamo la cultura e rispettiamo troppo la carne per rovinarla. Ovviamente, se qualcuno ben ferrato su agnello e capretto volesse farmi un corso pratico accelerato, sarei ben lieta di apprendere.
Nella mia famiglia, ci sono alcune preparazioni che sono rimaste nella storia: per esempio la trita "accomodata" di mia nonna, il suo ripieno per i ravioli e il suo stufato. Ogni generazione cerca di assorbire le abilità della precedente e aggiungerne di nuove. Io, per esempio, sto perfezionando il ragù al rabarbaro ma non saprei fare se non a spanne la trita accomodata.
Tutto questo per dire che, quando usare le parole "macellaio" e "macello" in modo spregiativo, mi viene da incazzarmi.
Prima di tutto perché mio nonno è il contrario dello stereotipo del macellaio: secco e mingherlino, per nulla incline alla violenza se non a quella verbale (è un ammazzasette di 60 chili), innamorato dei cavalli e della natura, non è capace di far male a una mosca. È una persona ignorante e a volte un po' ottusa, ma ha fatto della propria professione un'arte.
In secondo luogo, perché uno dei punti saldi della buona carne è l'uccisione dell'animale senza crudeltà e possibilmente senza stress: l'adrenalina infatti rende la carne più amara. Ecco perché quasi tutte le culture hanno sviluppato metodi di macellazione quasi indolori o perlomeno volti a rispettare il più possibile il benessere dell'animale. Poi, per carità, convengo sul fatto che l'animale starebbe meglio se restasse vivo, ma a quel punto niente carne.
Certo, al giorno d'oggi la carne è quasi un cibo per poveri: venduta a poco prezzo nei fast food, demonizzata da oncologi e cardiologi, bollata spesso come cibo "non etico" o addirittura pericoloso per le sostanze che vengono somministrate in certi allevamenti.
Io, proprio perché ne ho il massimo rispetto, non ne abuso e la scelgo della massima qualità (che senso ha mangiare tutti i giorni una carne schifosa? meglio una volta alla settimana ma buona!), evito la carne di animali troppo giovani (del resto, la biodinamica non permette la macellazione dei vitelli) e rivolgo sempre un pensiero di gratitudine alla povera bestia che sto mangiando. Ai miei figli non nascondo che i simpatici vitelli maschi con cui giocano un giorno finiranno nei loro piatti, perché possano rendersi conto e magari, un giorno, scegliere di interrompere la tradizione di famiglia e non mangiare più carne, se lo riterranno più giusto.
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