“L’uomo del Piano B è uno che non te ne sei nemmeno accorto ma tutto a un tratto ha preso e ha cambiato lavoro e ha cambiato casa. Oppure ha cambiato estetica, e ha cambiato lessico. Non ti ha semplicemente disorientato: t’ha proprio spiazzato. Non te l’aspettavi ma lui, tutto a un tratto, ha preso e cambiato vita e hai proprio la sensazione che il paraculo sia stato lui”.
Poeta, scrittore, critico letterario, promotore culturale instancabile e molte altre cose. Che cos’è questa exit strategy che hai definito l’arte del piano B?
“Fondamentalmente è uno stato mentale. È un’attitudine: un’inclinazione: una saggia e accorta propensione. È un’arte letteraria, deliziosamente onirica. È l’instancabile gioco della simulazione della realtà: è il quotidiano desiderio di alterazione e adattamento della realtà, vagheggiando magari la restituzione di tutto a una misura più umana, a una diversa e distensiva lentezza, a una volontaria e completa partecipazione alla vita pubblica e politica, in genere. È l’arte povera e fantastica dei popoli che, nel corso degli ultimi tre millenni, hanno abitato la nostra penisola: costretti per lo più a inventarsi e a rigenerarsi, per via d’un disastro cominciato attorno al Terzo-Quarto secolo dopo Cristo, attutito soltanto dagli umanisti, e da qualche artista di genio, apparentemente rimosso in quell’epoca che Hobsbawm ha definito la prima, vera età dell’oro: uno sbuffo di Novecento. È l’arte povera e solare della nostra generazione, nata quando l’Italia repubblicana ha cominciato a franare, stupita d’essere arrivata sin qua senza finire spedita al fronte. Praticamente è mancato solo quello. Almeno: a livello ‘generazionale universale’…”.
L’uomo del piano B ci cammina accanto quotidianamente, come si riconosce?
“Apparentemente è una creatura stravagante, fiabesca, intelligentissima. In realtà credo si tratti, sempre più spesso, e sempre più consapevolmente, del nostro vicino di casa, o del bottegaio o del negoziante che salutiamo tutti i giorni. Non c’è sostanzialmente una famiglia, tra tutte quelle che ho incontrato in questi trentacinque anni di vita, in cui non si sia spezzato un legame, spesso addirittura secolare, comunque almeno cinquantennale, con la regione o con la città di provenienza. Quel che ho trovato sorprendente, almeno sulle prime, è che a iniziare a svuotarsi fossero le città più rappresentative: le grandi metropoli, Roma e Napoli in prima battuta, e le capitali delle isole, cioè Palermo, Cagliari. Quel che mi ha piacevolmente stupito, ed emozionato, è sentire sempre più spesso riferire di trasferimenti nei paesi, nei borghi o nelle cittadine di provincia, magari vagheggiando un ritorno alla terra. Forse tra poco sarà difficile individuare ‘uomini del piano A’… è la fine di un’epoca, sta crollando una civiltà. A me non dispiace”.
Qual è il tuo piano B?
“Non ho terminato il mio piano, non posso parlarne. Posso dirti che ho guardato nel mio sangue, un sangue figlio di quella che Tomizza chiamava “la più spontanea e dolce bastardaggine del mondo”, e sono risalito per circa centottant’anni in tutte e quattro le famiglie da cui vengo. E ora sto vivendo il mio sogno dalmata: felice della compagnia di molte generazioni di antenati, sto cercando una parola che sappia dare loro pace, e gioia, e sia una parola amata e capita in tutte le loro lingue e dialetti: romanesco, triestino, veneto-istriano, tedesco-austriaco, croato-istriano, serbo, sloveno, francese. Per me quella parola è il nome che ho dato a mia figlia: il nome della terra in cui vivo. Giulia. Ma è solo un inizio”.
già pubblicato su Pubblicità Italia