Gustavo Zagrebelsky scrive su La Repubblica un articolo di grande rispetto, commovente per la passione profusa mentre discorre di politica e di democrazia partendo dal fattore culturale come mezzo di libertà. “La nostra Repubblica fondata sulla cultura” è un invito alla riflessione, all’acquisizione di consapevolezza rispetto all’argomento democrazia ovvero della massima espressione della res publica. Dissociandosi dalla concezione di una “cultura per la cultura” intesa come mero intrattenimento o dalla conoscenza instantanea oggi tanto diffusa, egli invita a considerare attentamente la libertà dell’arte e della scienza così come stabilito all’art. 33 della nostra Costituzione. Come uscire, dunque, dall’impasse generata dall’uso strumentale dell’arte e della scienza? Liberarci, scrive Zagrebelsky, dalle insidie di consiglieri e consulenti imboscati in enti, ministeri, fondazioni, imprese che offfrono strumentalmente la propria cultura per ottenere protezione, favori, emolumenti. Dopo l’acquisizione di esperienza e conoscenza in un determinato settore, spesso si cerca di spenderli in altri ambiti e ciò, secondo l’emerito costituzionalista sarebbe la fonte generatrice della corruzione: “ciò che funziona in un settore può non esserlo in un altro”. La sua analisi è interessante sia sotto il profilo giuridico che politico ma è carente riguardo l’aspetto sociale. Le pratiche che nel tempo sono state assorbite e acquisite dai cittadini sono il risultato di comportamenti che, seppure distorti o devianti, sono divenuti consuetudinari. Prima della norma sociale, in Italia si è diffusa una opinio juris ac necessitas monca ovvero giuridicamente esigibile ma non sentita obbligatoria nè socialmente nè moralmente. Parte dei rappresentanti delle istituzioni hanno incarnato questa logica contraddittoria rispetto al senso di civiltà, di legalità e di interesse pubblico. In primo luogo ciò ha riguardato i partiti politici che sono divenuti raggruppamenti di individui e/o addetti ai lavori interessati esclusivamente a interessi pratici individuali o di piccole lobby, improduttivi sotto il profilo della realizzazione di un programma politico o di riforma. In seguito, anche membri del Parlamento, e le cronache sono fitte di indagati e condannati come ricorso storico del ’92, che si sono macchiati di reati gravissimi, da colletti bianchi, defraudando lo Stato di denaro pubblico. In terzo luogo, la Magistratura che avrebbe dovuto porsi come ordine autonomo, così come stabilito dalla Carta costituzionale, e che invece ha assunto sempre più spesso la veste di un nuovo potere perdendo la necessaria autonomia dalla politica o dall’ideologia politica, mancanza che osta ad un effettivo operare al servizio esclusivo alla Repubblica. Infine, il mondo dell’informazione che vede il giornalista come mero portavoce a pagamento delle più disparate correnti politiche. La libertà della cultura si esprime nella libertà professionale e ciò può accadere solo se quel lavoro lo si è guadagnato con impegno e sacrificio personale. Altra questione è il balzello settoriale. Non è raro assistere a economisti che dirigono settori di non propria pertinenza così come giuristi dilettarsi nella politica o politici gestire enti di cultura/arte ( i c.d. passaggi di sfera di competenza come causa di corruzione indicata da Zagrebelsky) o alla politicizzazione di Ministeri e Pubblica Amministrazione che perdono in questo modo la rettitudine in virtù di nomine di comodo che agli attributi di efficienza e buon andamento sostituiscono corporativismi di scambi, servigi e protezione. Una rivoluzione etica potrebbe impedire la prosecuzione di logiche sinora adottate nella società ma sarebbe opportuno partire dal campo dell’istruzione con docenti giovani che si pongano oltre che come teorici delle materie di insegnamento come pedagoghi delle nuove generazioni. Contestualmente, i vari ministeri dovrebbero rivisitare sia le modalità di selezione dei propri operatori e, a livelli più elevati, eliminare i meccanismi delle nomine dietro sollecitazione politica. La cultura è libera perché è essa stessa fonte di libertà ma il mancato riconoscimento dell’importanza del fattore culturale in una data società – ed è ciò che accade rispetto ai numerosi giovani istruiti ma privi di chance- è il più grande paradosso verificatosi nel progresso della specie umana.