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L’arte di Salvatore Carbone

Creato il 07 giugno 2011 da Cultura Salentina

L’arte di Salvatore Carbone

Salvatore Carbone e la sua decisa e instancabile volontà di fare arte, la sua lucida coscienza del dolore, della miseria e dell’emarginazione della sua gente che si incarna nella coscienza del fare poesia (supremo valore artistico), è stata più volte accostata al mito dell’artista del profondo sud, sradicato, isolato, emigrato, incompreso, frustrato, passionale, con dentro di sé una grande nostalgia della sua terra e insieme una immensa voglia di riscatto.

E’ il cliché che accompagna spesso gli artisti meridionali, con tutto “l’addensarsi evocativo di cultura e memoria” e, in questo caso, la tematica sociale delle sue opere, che ne è “il vero e proprio leit motiv”, sembrerebbe confermarlo.

Ora non vi ha dubbio che Salvatore Carbone sia figlio della nostra società , del nostro Sud, del nostro Salento, fedele ai miti della sua terra , alla sua “storia fatta di presenze inequivocabili”, colori, odori, atmosfere, paesaggi che attengono al suo mondo , e quindi la sua pittura e la sua scultura rappresentino anche quelle determinate condizioni ambientali, politico-sociali e ne registrino, in qualche modo, la cronaca, ne riassumano la storia di questi ultimi trent’anni; ma la sua opera, anche quando è irrimediabilmente mediterranea e salentina, è “forsennatamente cosmica”, come scrisse Vittorio Pagano dell’arte di Nino Della Notte (1910-1975), pittore leccese, che Carbone ha sicuramente frequentato (alcuni paesaggi emblematici salentini del Della Notte, con forti accensioni cromatiche di matrice fauve-espressionista, che emanano una specie di musica nera, “quando il cielo è troppo pesante e piega le teste a guardar sotterra”, li ritroviamo, attenuati da velature, nell’ultimo Carbone come ad es. in “Un sogno in rosso” o “Sera d’agosto”,  o “Una notte diversa”).

Ma nelle opere di Carbone non c’è solo il mito del Sud e del Salento ; c’è tutto un armamentario di simboli e di miti, in parte inconsci (“esplode l’inconscio quanto più l’artista è felice e innocente, immerso nel suo lavoro”) e in parte frutto delle sue frequentazioni artistiche-letterarie-filosofiche. Ed è su questi; miti che bisogna far luce. Se scorriamo l’elenco delle sue opere come un lungo film ancora inconcluso della sua vita artistica , vi troviamo diverse indicazioni, segnali, tracce: dal mitico quotidiano di Campigli, alla irrequietezza ancestrale di Geremia Re; dalla Magna Grecia del primo Cagli, all’assorto realismo e concreto astrattismo di Suppressa ; dall’oriente di Matisse, al classicismo maledetto di Francesco Barbieri; da De Stael, maestro di masse geometrizzate e giustapposte, alla “profondità dei silenzi e gli ultimi gridi ossessivi del cuore” di Luigi Gabrieli, al Guttuso “etneo” e delle solfatare. Questi sono i primi nomi che vengono in mente , ma ci sono riferimenti anche al dinamismo di un futurista illuminato come Boccioni (che aveva anticipato di oltre mezzo secolo le proteste contro la vita moderna, i miti della macchina, della tecnologia, il consumismo e la società di massa), unitamente al senso di angosciosa solitudine di Sironi, creatore del futurismo “metafisico” (vds. “La famiglia di Giorgio” e “Dinamismo urbano”) . Ci sono tracce anche del surrealismo simbolico e lirico di Chagall , con paesaggi e figure che volano ( vds. Frammenti salentini ) e dell’Urschrei di Munch , alfa e omega dell’espressionismo , arte che si fa grido di allarme, grido di liberazione dell’uomo nudo; all’artista che deve ritornare “ad una purezza aurorale, al primo grido ed al primo sguardo del neonato appena caduto dal grembo materno”.

Tutto ciò, filtrato da quella ” profonda inquietudine maudit, fino al sacrificio mortale che esagita poeti e artisti della costellazione salentina novecentesca” (Oreste Macrì) è leggibile e riscontrabile nelle opere di Carbone (vds. i vari “Interni con figure”, “Dimensione umana”, “L’attesa”, “Le false colombe”, “La piscina” , ecc.) e tuttavia nel pittore di Cutrofiano ( prendo le distanze dal Carbone -scultore , che ha effettivamente un più acceso e marcato espressionismo) non si riscontra quell’estremismo espressionistico-azionistico , acceso, virulento, che connota molti artisti salentini nell’immediato dopoguerra di cui parla Macrì (vds. i poeti della famosa triade, Bodini, Pagano, Comi, ma anche De Donno; e poi i già menzionati Suppressa, Della Notte, Ciardo, Barbieri, soprattutto Mandorino) .

Come osserva Gino L. Di Mitri, il “paesaggio dell’anima di Carbone è il Salento mediano, che non ha le tinte forti del bolo e della roccia, ma i tonipastello delle paludi e dei casali antichi, ove il furore acceso cede ad una più meditata visione delle cose e degli uomini”.

In effetti l’impianto cromatico del Nostro è fatto di colori non puri, le scansioni, le velature, gli intrichi, i chiaroscuri, le volute, le decorazioni, i diversi piani di lettura sembrano rievocare la suprema eleganza e la raffinata tecnica decorativa, le grandi qualità espressive del colore e dei contrasti di un Gustav Klimt, padre del secessionismo viennese. Anche il suo ricorso costante al simbolo e al mito ( vds. in particolare “Bacco e Venere”, ma anche “L’aquilone”, “Riflessi”, “Nel parco della pace”, “Il tempo della memoria”, “Metamorfosi”, “Interno con figure” e “Dalla mia finestra”) ci indirizza in tal senso.
Scrive Antonaci che in Carbone c’è “l’ansia di demolire le impalcature e le sovrastrutture fittizie che deformano il vero volto dell’uomo. Egli vorrebbe un mondo diverso, senza maschere e diaframma, senza miseria e senza bagni di sangue” Ebbene, curiosamente, Klimt aveva fatto incidere sopra una figura femminile stilizzata queste parole: “ Bisogna mostrare all’ uomo moderno il suo vero volto!, l’essenza del manifesto secessionista, che propugnava una riforma del gusto, con l’opera d’arte totale e l’annullamento delle divisioni tradizionali dei generi.
Senza pronunciamenti e senza grancassa, anzi oserei dire con il pudore della discrezione e del silenzio, in punta di pennello, Salvatore Carbone, a distanza di un secolo ripete, con le sue tele e sculture, le stesse cose, smaschera, demistifica, demolisce impalcature, denuncia ogni sopraffazione, prepotenza e ingiustizia, fustiga l’indifferenza, risveglia coscienze sopite, ma senza alcuna retorica, con dolorosa partecipazione ed estrema sensibilità. Alcuni esiti di questa sua ricerca in profondità, di questa verità che illumina e brucia li possiamo cogliere in quel volto in primo piano di “ Attesa”, un volto crepuscolare, silenzioso, amaro, rassegnato, profondamente malinconico; un altro volto dolente, ma con un più accentuato dinamismo, lo rileviamo nelle “ Braccianti”, un gioiellino di scultura in terracotta.. “Si tratta, -scrive Mario De Marco-, di pittura immediata, cruda, che esprime tensione verso una società fatta di autentici valori di giustizia e di libertà, una pittura che “ non indulge a sentimentalismi”. “Carbone conferma, – scrive Bartolini, – le radici marcatamente sociologiche della sua arte in cui c’è rigore, polemica, ansia di libertà e il fondo costante di malinconia che si scopre nei volti e nei tronchi contorti, ma anche nei fiori che emergono in primo piano”.

La sua malinconia è un’arpa, una stele, un limoneto, una fronda d’ulivo, una pala di fico d’india che spunta da un muretto a secco, poiché tutte le cose della natura sono partecipi delle sofferenze e delle incertezze dell’uomo. Sono partecipi del vuoto cosmico di una umanità dolente Il dolore, nelle opere di Carbone, è universale, lo troviamo sparso ovunque, anche nel legame materno, nel nucleo familiare, in sua figlia Marta, quasi memore dell’urlo di Munch, tutte sculture in terracotta che pongono in rilievo figure plasticamente fasciate di silenzio e di sofferenza.
Un’opera che considero emblematica e riassuntiva dell’arte di Salvatore Carbone è senza dubbio “Dalla mia finestra”, che è luogo interiore ambiguo, enigmatico dell’anima dell’artista, cattedrale del silenzio e dell’indivisibile, dove l’iterazione parallela, la frontalità così esclusiva è tale da attrarre come un magnete, dove al rigore geometrico e alla semplice raffinatezza della composizione, si aggiunge e si sostituisce, si agglutina, uno spazio dovizioso di ornamenti e la partizione ritmica della superficie, le profondità enigmatiche si risolvono in un’ambigua definizione bidimensionale, che tende a condensare una sorta di indefinita sospensione del tempo. Il quadro è colmo, scandito dai riflessi di immobile luce, con una falsa suggestione di quiete. Non si può accedere nella casa, perché il quadro è tagliato, in basso, non esistono ingressi e anche le finestre sono inaccessibili; e lo sguardo non può spingersi oltre quell’orizzonte nero buio, che coincide quasi col margine del quadro, così la visione si restringe al frammento, l’occhio mette a fuoco esclusivamente il singolo dettaglio, lo intensifica fino a farne un momento magico, un oggetto di meditazione, un sipario dell’estraneità e della solitudine. Qui, a mio avviso, la tecnica del pittore raggiunge il massimo della sua espressione, con la tessitura di piccoli tocchi e di un colore non puro, alla maniera divisionista, ma già miscelato in infinite gradazioni Si avverte, in questo quadro-emblema, un’eco del maniacale “ horror vacui “ di cui soffre l’artista, o una sorta di mancamento della coscienza, un più forte segno di conflittualità, un sentimento di stanchezza, forse di resa, per il continuo lottare con se stesso e il mondo. E’ forse un desiderio di rientrare nell’utero materno, che è la casa, quella casa dipinta, e vedere magari il transito infinito delle cose dalla” finestra”, con più distacco e lucidità?.
Carlo Franza ha colto questo senso profondo di angoscia nell’arte di Carbone, quando parla di “ partecipazione che da cosmica si è fatta esistenziale ed è qui appunto che si sviluppa una delle radici dell’angoscia. La materia pittorica diventa nel suo lavoro la condizione attraverso la quale lo spessore fisico, il senso di peso, di oscura densità della parete del mondo si trasforma in immagine drammatica, si organizza secondo una struttura di forze interne, si condensa con grande esito, spogliata di ogni elemento retorico, controllata con rigore nella sua tendenza ad espandersi, ridotta ad ogni punto alla sua più profonda trasformazione espressiva,arricchita infine da una luce intensa diffusa, non meteorologica”.

Abbiamo accennato alle sue ultime opere, orientate decisamente verso l’ informale, con riferimenti a grandi maestri come Kandinskij e Klee, ma, per completezza, dobbiamo dire che non mancano nell’arte di Carbone accostamenti alla società tecnologica di oggi e alle più recenti scoperte, arte cinetica, neo-astratta, optical, con sdoppiamenti dell’immagine e fughe dallo spazio visivo, ricerche di sinestesie ottico-sonore, che realizza in una sorta di trance, di sogno ad occhi aperti. Tutto serve, per allargare la sua indagine sul reale, ma Carbone continua soprattutto a scavare in se stesso per risonanze interiori o per espressività ai limiti dell’inconscio. Emette dei segnali precisi di una diversa esigenza da comunicare, che va “ oltre il deserto dell’attuale esistere” e vola nei cieli della fantasia, si rifugia nel “simbolo”. E tutto si fa evocazione, diventa simbolo e mito.
Alcune composizioni di Carbone -, “Nel mio giardino”, “Il sogno di Ulisse”, “ Aldilà del muro”, “Natura al tramonto”, “Una notte diversa”, – mi suggeriscono anche note, partiture musicali, sembra quasi di udire la musica rosata di un Kandisky o quella azzurrina di un Couperin che troviamo nello scenario fantastico e fiabesco di un Klee ; vere e proprie sinfonie cromatiche di colori freddi, mentali, azzurri e verdi, con vibrazioni rossi e gialli di corde per archi invisibili, note che si allungano e s’ingigantiscono, in quelle “notti diverse”, lungo itinerari improbabili, che danzano in un universo giocoso, caotico, remoto, ancestrale, senza tempo.
“La pittura di Carbone – rileva Cracas – sembra (ri)destarsi nella mitologica e nei riti, insieme a certe vibrazione ritmiche nella scansione formale e coloristica che ci offrono uno spaccato della condizione esistenziale contemporanea” C’è – aggiunge Cesari – “il sentimento del tempo, nel suo lento scorrere e sedimentarsi nelle coscienze, con segni, colori, simboli, attraverso i quali si confeziona esteticamente il suo discorso di una sconcertante e avvincente attualità”.

Carbone, dunque, cerca di far luce sul mito, perché (ora lo abbiamo capito) ciò significa scoprire la storia dei popoli e la propria storia personale. Lo fa mettendo in gioco tutto se stesso, il senso della propria arte e del suo essere uomo, lo fa coraggiosamente, perché è senza rete, è lui l’uomo nudo che grida.
Questo è il senso della sua ricerca artistica e della sua testimonianza nella storia del nostro tempo.


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