- Departures – 2010 – ♥♥♥ e 1\2 -
di
Yojiro Takita
“Non si tratta di viaggi, bensì del viaggio, un serene ultimo viaggio”. Sono queste le parole con le quali il becchino Sasaki spiega a Daigo (Motoki Masahiro) il tipo di lavoro che si accingerà a svolgere. E’ quello della cura del nokanshi: uno dei riti all’ interno della deposizione che fa parte ormai della tradizione giapponese e che serve a pulire il corpo del defunto, vestirlo e truccarlo per renderlo il più somigliante a come era in vita. Un lavoro “pesante” e non di certo semplice quello che Mika, che è in realtà un violoncellista abbandonato dalla sua orchestra con un rapporto conflittuale col padre (che non vede da oltre trent’ anni), si vede costretto a fare per guadagnare qualcosa. Un lavoro che però con lentezza e col tempo introdurrà Mika all’ importanza che quel rito assume per coloro che restano in vita, per i familiari e i parenti di chi è dipartito. Un lavoro a volte in grado di restituire il sorriso e la leggerezza che quel momento non ha , perchè più spesso doloroso, ma sempre un utile mezzo di riconciliazione per i parenti. Le sequenze del film sono spesso lente soprattutto quando esplorano il rito stesso della tanatoestetica , ma pur sempre in grado di raccontare le emozioni umane con semplicità e espressività. Forse troppo accentuate a volte le faccine che il protagonista Daigo esterna per comunicare i suoi frequenti cambiamenti di stato d’ animo che passano dal disgusto alla gioia, dal sereno all’ arrabbiato in maniera troppo repentina. Il film giapponese si è aggiudicato l’ Oscar come miglior film straniero nel 2009 , superando il favorito Valzer con Bashir, forse proprio grazie al suo metodo semplice e decisamente universale nel parlare di un argomento non di certo facile e un pò scomodo come la morte e nello specifico di un’ usanza tutta orientale che manca del tutto nella nostra cultura, più attenta al rito cattolico che al corpo stesso del defunto. Lo fa anche con ironia, non calcando mai sulla facile emozione della commozione (se se ne fa eccezione all’ istante finale , comunque non eccessivo e trattato con garbo) e apportando alla problematicità di quell’ evento triste un umorismo tutto nipponico che, se con l’ apertura mentale adeguata , riuscirà a stupire anche noi spettatori occidentali. E’ un Giappone decisamente più melodico e poetico di quello che spesso si immagina, meno tecnologico e frenetico che utilizza dei riti antichi per riscaldare l’ elemento quotidiano della morte che prima o poi riguarda tutti, al quale spesso non si pensa, ma che sarà comunque il nostro ultimo viaggio. Un viaggio che inevitabilmente sarà fatto in solitudine, come in solitudine in un certo senso è stata la vita di Daigo che ha vissuto l’ abbandono del padre con non pochi risentimenti e turbamenti interiori. Sarà proprio grazie alla comprensione profonda dell’ onore che il suo lavoro rende a quell’ “ultimo viaggio” che Daigo scoprirà un diverso e più profondo valore della vita stessa. Insomma nessun virtuosismo in Departures, nè di regia e neanche di sceneggiatura, ma solo un fugace tocco di semplicità e poesia tutta orientale che rende i 130 minuti del film gradevoli. Per una volta anche ad Hollywood ha vinto la semplicità a discapito di lavori più eclettici. Un cenno lo merita anche la colonna sonora che in più punti avvolge il film e come fosse un dialogo importante apporta valore alla poesia delle immagini.
(La prima volta da solo)
( Una poetica sequenza di Departures)