La liquida mutevolezza che la nostra cultura ha assunto negli ultimi venticinque anni sembra entrare in conflitto con l’idea stessa di permanenza. Proprio perché è possibile registrare e ricordare tutto il concetto classico di monumento come segno forte che ammonisce i posteri viene svalutato. Se tutto è ricordabile tutto assume la stessa importanza, un giorno qualunque o un giorno catastrofico come l’11 settembre, come se la memoria portata alle sue estreme conseguenze si trasformasse in un’implicita amnesia.
La riprova di questo imbarazzo nel costruire monumenti sembra venire proprio dall’11 settembre. Un evento tragico che ha segnato le vite di tutti, ma che pare difficilmente sintetizzabile in un deciso segno architettonico. La Freedom Tower che si immaginava dovesse svettare sul vuoto fossile di Ground Zero non è stata ancora neppure costruita e forse alla fine non avrà quelle caratteristiche di simbolica eccezionalità che gli si volevano attribuire nel momento in cui fu progettata. Sarà forse un grattacielo in mezzo a tanti altri, visto che il business immobiliare ha bisogno di normalità per prosperare e un monumento di quel genere sembra rappresentare proprio il contrario.
Nel clamore della campagna elettorale 2008 e dei ripetuti crolli finanziari è passata praticamente inosservata l’inaugurazione dell’unico monumento alle vittime dell’11 settembre progettato ed eseguito a nove anni dalla catastrofe: il Memorial che commemora le 184 vittime civili e militari dell’attacco suicida sul Pentagono. Realizzato su progetto dello studio Kaseman & Beckman, il Pentagon Memorial sorge all’esterno dell’edificio e si compone di 184 lastre di acciaio inossidabile conficcate a terra, all’interno di una zona recintata. Le lastre sono piegate in modo da formare tante panchine e recano ciascuna il nome di una delle vittime. Fra le panchine sono stati piantati degli alberi, sotto ognuna di esse c’è una piccola vasca d’acqua riflettente illuminata da un faretto: lo spettacolo notturno somiglia molto a quello di un cimitero con poetiche luci fluttuanti.
L’autorevole critico architettonico di Slate, Witold Rybiczynski, stroncando il monumento, ne ha colto uno dei difetti più evidenti. Sembra un’installazione di qualche mostra d’arte contemporanea: dice che qualcosa è successo, ma non cerca di spiegare perché. Gli architetti non hanno avuto il coraggio di affrontare l’epico puntando tutto sull’effetto lirico. Un monumento che non ammonisce e per di più assume un’aria impermanente finisce addirittura per sembrare un esempio di nichilismo.
Ma se è così difficile costruire il perfetto sacrario per un’immane tragedia, a volte ci si dimentica come il vero monumento sia costituito dalle immagini che le televisioni di tutto il mondo hanno tante volte mandato in onda. Gli aerei che colpiscono le torri, il fumo degli incendi, gli uomini che si gettano giù, le strutture che si accartocciano. Dopotutto non abbiamo bisogno di nessun edificio che ci testimoni l’orrore di qualcosa che tutti abbiamo visto e continuiamo a rivedere così spesso. Grazie alla presenza delle telecamere l’11 settembre è travasato per sempre nella nostra memoria visiva a costituire forse il primo monumento postmoderno, completamente immateriale, ma perciò stesso perpetuamente vivo e riproducibile nelle nostre menti.
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