Ho già avuto modo di raccogliere in passato le voci di giovani autori, su cosa secondo loro sia l’arte, e perché si scrive. A rispondere questa volta altri tre autori che hanno pubblicato con Gru Edizioni.
Per Maria Clausi, autrice de I perdenti, l’approccio è molto simile al mio.
La mia vita creativa è costituita da diverse fasi: in una prima fase comincio a “sentire” i miei personaggi. È difficile da spiegare: è come se le storie e i loro protagonisti esistessero già in un mondo parallelo e questo mondo parallelo si manifestasse a me con immagini e dialoghi. Io vedo i miei personaggi, vedo le loro storie e ascolto le loro conversazioni.
Quando queste storie diventano ben definite, comincio a tradurle in parole che metto sulla carta. Giorno dopo giorno, man mano che scrivo, quella realtà che io sentivo dentro di me, prende corpo e diventa un racconto.
Sono tante le sensazioni che si provano: si prova la rabbia quando è la rabbia il sentimento che esprime il personaggio; si prova la tristezza, la gioia, la speranza…
Ciò che viene descritto in un romanzo, in verità, non è nulla di inventato, è qualcosa che esiste e vive anche se solo nell’anima dell’autore.
Nelle storie che vengono raccontate, inoltre, c’è sempre un pezzo della realtà storica in cui è immerso colui che scrive, i personaggi sempre ispirati a persone reali e anche le storie sono ispirate a fatti reali.
L’arte in fondo è questo: fantasia e realtà; creatività e cronaca; pura immaginazione e riproduzione di ciò che già esiste.
Discorso a parte per le case editrici: la maggior parte di queste oggi compie operazioni commerciali: i grandi editori sono, infatti, società per azioni che perseguono il profitto e che investono solo sui nomi che possono produrlo.
Ci sono poi delle “entità” difficili da definire: non si capisce bene se siano editori o altro, ma anche questi soggetti perseguono fini di profitto, solo che nel loro caso questo profitto si tende a realizzarlo attraverso vere e proprie truffe che hanno come vittime tanti sconosciuti con l’illusione o il sogno di diventare grandi scrittori.
Il talento oramai non è più un valore sul quale investire, nonostante il talento sia la materia prima dell’arte e senza materia prima non si produce nulla.
Credo che nel nostro Paese oggi la vera arte si sia persa. C’è molta confusione, un’immensa quantità di “prodotti” che vengono immessi sul mercato, tanta gente che si propone come scrittore, ma pare che la grande arte sia assente. Ancora non è emerso il grande scrittore, il grande narratore, colui che rivoluzioni la realtà del suo tempo e che scuota le coscienze. L’arte è rivoluzione, l’arte è una forza creatrice e riformatrice, l’arte è sconvolgimento, ma soprattutto è la voce di Dio perché è figlia di Dio. Se l’arte non trasmette nulla di rivoluzionario non è arte e attualmente il nostro Paese è povero perché non riesce a partorire grandi artisti.
Alessio Pace, autore di “Lo zucchero e il veleno”, trova che la musica sia una componente fondamentale nell’atto creativo.
Come nasce una storia? Generalmente, almeno nelle fasi iniziali, le mie storie nascono spontanee da una qualche idea che mi attraversa la mente, da un luogo, da una canzone, da un passante. L’evoluzione di queste vite viene poi pressoché dettata dalla ragione e dalla fantasia ma i miei personaggi nascono da un breve sussulto dell’anima.
Certe volte ciò che sorge prima è proprio il personaggio, certe altre costruisco una vita su un pensiero o un’idea che in quel momento, in fondo, è fine a se stessa. Vivo con molta intensità il momento della creazione delle storie: in fondo, in qualche modo, vivo, sento le emozioni dei personaggi che creo.
La musica è fondamentale, sia nel momento in cui l’idea di un racconto sorge e sia, direi soprattutto, durante il suo sviluppo. Arte che, con le emozioni che mi trasmette, dà una spinta al mio processo creativo. L’arte dovrebbe essere fondamentale nella vita di ogni persona, nelle sue varie forme serve a nutrire, a elevare l’anima.
Il mio contributo all’arte? Troppo presto per dirlo e, soprattutto, non tocca a me. Quel che vorrei ottenere è riuscire a toccare l’animo, la sensibilità di qualcuno, suscitare delle riflessioni.
Il mio libro preferito non si può certamente definire noto, almeno ai più. Quando menziono “Headcrash” di Bruce Bethke mi sento sempre rispondere “Chi è?”. Ma l’arte non è fatta solo dai grandi nomi (senza nulla voler loro togliere), dagli autori di best-seller, dai musicisti di fama mondiale, dai pittori, scultori o architetti più famosi, l’arte è fatta anche da “piccoli nomi” perché, per me, l’arte è suscitare un’emozione con l’espressione di un’idea. Io spesso riscontro emozioni più vicine alla mia sensibilità proprio da “artisti di nicchia” in genere relegati in quel ruolo da regole di mercato più che dalla validità della loro creazione.
Sono sempre stato un segugio, abile a scovare per fiuto o per caso questa tipologia di artisti che, probabilmente, non verranno mai a conoscenza che in una piccolissima parte del mondo c’è qualcuno che ha recepito il loro messaggio, le loro emozioni. A volte sogno proprio questo, al di là degli innegabili desideri di fama, che da qualche parte ci sia anche una sola persona che stringa il mio lavoro fra le mani, sentendo che le parole che ho scritto hanno nutrito la sua anima, una persona che porterà il mio libro nel cuore allo stesso modo, in fondo, in cui io custodisco nella mia anima le parole del mio libro preferito o di quella canzone che le radio non trasmetteranno mai.
Infine, Francesco Pierucci, autore di Dieci piccoli passi afferma che scrivere sia un lavoro di psicanalisi che ogni scrittore fa su se stesso.
Personalmente preferisco non parlare del trattamento riservato all’arte in Italia. Basti pensare che i primi fondi tolti dallo Stato hanno appunto riguardato la cultura. Non mi interessa neanche parlare del mio rapporto con le case editrici, considerando che il 90% delle suddette sono vere e proprie tipografie a pagamento. Non ne capisco il senso. Vorrei soffermarmi piuttosto sulle mie sensazioni pertinenti all’atto di scrivere anche se non sarà facile descriverle.
Diciamo che scrivere per me è puro e incontrollabile spirito dionisiaco. È ricreare il samsara di Siddartha con in mente il sacro Om. È appropriarsi improvvisamente dell’insight di Kohler.
Mi spiego meglio. È capire di essere solo e unico al mondo e, sopratutto, diverso dagli altri. Nel Bene o nel Male. Scrivere ti concede il fantastico privilegio di creare un tuo universo personale, fatto di azioni decise da te, di personaggi da te immaginati. E con ciò ti permette di estraniarti dal mondo meschino che ti circonda, dove niente cambia e dove “merito” è solo una parola sfuggita al vento.
L’atto stesso dello scrivere mi trasforma nel flaneur di Baudelaire o nell’individuo blasè di Simmel. L’alienazione dall’omologazione della società è, per me, il fine intrinseco dello scrivere. E poco importa se nessuno leggerà le tue parole, se a qualcuno piaceranno o se a qualcun altro faranno schifo. Perché l’atto stesso di scrivere ti rende libero. Ed è proprio questo quello che deve tener presente uno scrittore al livello cosciente e non affrontarlo come semplice immagine mnestica in un sogno idilliaco. Non è un caso, perciò, che Borges affermi che scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio.
E dice il vero anche chi afferma che i veri scrittori incontrano i propri personaggi solo dopo averli creati. O almeno vale per me. Perché ogni nascita di un mio personaggio, illumina una minuscola parte del mio inconscio o Es (se usiamo la seconda topica di Freud) che pensavo di non possedere o che più probabilmente avevo rimosso. Quindi lo scrivere può essere inteso, per quanto mi riguarda, anche un vero e proprio lavoro di psicanalisi a basso costo. Sta ad ogni scrittore trovare la personale finalità catartica nello scrivere. Bisogna lasciare che la nostra anima ci possegga, sottometta il corpo e parli per noi. Dall’inizio fino alla fine dell’inchiostro sulla carta. Perché si sa che ogni fine è sempre un nuovo inizio…