di Giuseppe Leuzzi. “Anime nere”, il film di Munzi che Nanni Moretti proietterà in anteprima nel suo cinema romano martedì, si fa precedere da questa sinossi – la mettiamo in italiano: “Se nasci in Aspromonte il tuo destino è segnato. Molti giovani cercano di intraprendere un cammino alternativo e vanno a vivere altrove. Sono però costretti a tornare al luogo d’origine dove le dinamiche sono criminali e l’insegnamento tramandato dalla famiglia, che loro stessi hanno assorbito, è spesso crudele e duro da accettare. Ad una situazione già difficile si aggiungono una realtà familiare fatta di affetti e contraddizioni e un paesaggio straordinario. Una storia incentrata sul male che definisce i rapporti tra gli uomini”.
È una storia, tra l’altro di Criaco, uno scrittore di Africo, e quindi ha il suo sviluppo. Ma, essendo nato e cresciuto “in Aspromonte”, non vedo come si possa essere “segnati”. Personalmente non ne ho motivo. Sono, è vero, tra quelli che “cercano d’intraprendere un cammino alternativo e vanno a vivere altrove”. Ma non potevo fare “in Aspromonte” quello che volevo fare – succede: c’è gente che non riesce a farlo a Roma, per dire la città più grande, o a Milano, la più ricca, e si deve spostare. E quelli che sono rimasti non li trovo “segnati”.
Da cosa dovrebbero esserlo? Dalla povertà? Non più. Dalla mafia? Nell’Aspromonte non ce n’è più che altrove, e anzi meno, essendo la zona montuosa e meno ricca. Dai rapimenti di persona? Il mio paese ha avuto per alcuni anni, all’inizio del fenomeno, il record dei rapimenti di persona, sette o otto. Poi uno dei due rapitori “professionali” s’è infermato, un altro è morto, e il fenomeno è finito – trasmigrato probabilmente da loro conoscenti sull’altro versante dell’Aspromonte, a Platì-San Luca.
Una cosa che nasce e muore così non ha nulla di etnico o razziale, o segnato: è un fatto di ordine pubblico. Nella fattispecie, i Carabinieri non intervenivano per due motivi: che era un reato minore, patrimoniale (i Carabinieri non proteggevano allora la proprietà privata), e che ai rapiti veniva chiesto un riscatto equivalente alle somme che avevano percepito d’integrazione comunitaria alla produzione di olio.
Si commettono delitti anche nell’Aspromonte, più spesso inspiegabili. Ma questo succede in tutte le zone di montagna, per l’angustia delle valli, che con l’isolamento inducono ai fantasmi – Jean Giono, nel suo “Viaggio in Italia”, li trovava “normali” nelle Alpi. O per “l’aria dell’Engadina” di Montale (“Ventidue prose elvetiche”, p. 74): per l’aria “secca, elettrica, eccitante, sottile, che favorisce la pazzia” .
Il fatto in sé è poco significativo. Una tramina non è un film. E l’Aspromonte non ha buona fama. La protagonista del film Bobulova candidamente ha raccontato dei suoi giorni a Africo per un paio di scene: “Quando volevo andare a prendere un caffè al bar, la produzione mi diceva di non andare da sola. Ma ogni tanto scappavo, e non è mai successo niente”. Dice anche che la polizia aveva sconsigliato il regista di girare in quei luoghi, e questo già cambia le cose – tanti film sono stati girati in Aspromonte, per dire, “e non è mai successo niente”, da Germi a Terence Hill e Lucio Dalla. Ma perché pretendere che “una storia incentrata sul male che definisce i rapporti tra gli uomini” segni l’Aspromonte?
Si può viaggiare “in Aspromonte” anche con la morte nel cuore, perché no. Ma per la sporcizia, perché i sindaci non fanno pulire le aree di pic-nic che sino affrettati ad attrezzare. O, peggio, perché la Forestale non sa tenere i boschi. Che sono ancora verdi e verdissimi, l’Aspromonte è verde fino al cocuzzolo, ma dentro bacati: fitti e marci, senza luce, senza aree di rispetto, preda designata del primo fiammifero incauto.
Sono una decina danni che in Aspromonte non ci sono incendi, ma è un miracolo. Uno dei tanti che non si sanno e non si dicono.
Io ho sempre marciato libero nell’Aspromonte, da quando avevo tredici anni e quindi in età remota. Con gli amici o anche con gruppi di estranei. Non solo in libertà, ma con piacere, poiché è una montagna gradevole, senza difficoltà, piena di scorci, tra i mari, sui quali sempre si apre, di sorgenti, di torrenti e cascate, di vestigia greche, bruzie, romane, bizantine, di bizzarrie geologiche. Di funghi naturalmente, specialmente pregiati dall’industria conserviera svizzera, e più giù di castagni, meleti, uliveti.
La libertà oggi si apprezza soprattutto rispetto all’affollamento: la cattiva fama può non essere nociva, non al turista o visitatore occasionale. Al residente magari no, ma a un artista o scrittore non si può chiedere di fare politiche di sviluppo. Si possono ancora praticare i sentieri in libertà, ascoltare le voci della montagna, sentire il vento. A ogni passo, ogni valico, ogni anfratto, a ogni rivo una sorpresa. Sulla tela di fondo del silenzio, non muto, la solitudine, la purezza dell’aria, la montagna dà questo privilegio, quando non è antropizzata..
Camus ha “la fortuna di essere nato povero in mezzo alla bellezza”, lui che visse triste i successi di Parigi, politici, filosofi, letterari, nell’animo sempre i giorni luminosi dell’infanzia ad Algeri, dove pure era figlio rifiutato. Povero, cioè indifeso, per distrazione, per consuetudine. Gli “elementi” possono dare splendore e gloria anche agli inermi e ai distratti: il sole, la luce, l’acqua, del torrente Petrilli alla pietra Grande, della sorgente, delle trote a punta gialla, delle trasparenze, delle iridescenze, della rugiada per esempio la mattina al primo albore. Si vive a propria insaputa. Si è vissuti dagli eventi, dagli ambienti.