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L’assassino. Gwyneth Lewis

Creato il 01 febbraio 2011 da Vivianascarinci
 

L’assassino. Gwyneth Lewis

Opera di Sergio Padovani

 

 

Tengo

me stesso per me. Suppongo lei abbia udito

le voci sui grandi felini a caccia di pecore.

Interroghi sull’uccidere le creature già spente

E le bestie feroci dentro la mente. Gwyneth Lewis 

 

Cosa si intende per autore minore? Su che piano si gioca la minorità di un autore? Se “l’autore minore” può essere visto come “uno straniero nella propria lingua” (1) nel caso di Gwyneth Lewis, la minorità si esprime in primo luogo nella reale appartenenza a una minoranza linguistica, quella gallese. Ma la Lewis pur partendo da questo presupposto estende la sua “minorità” fino al paradosso di renderla un assunto universale. Ossia minorità di una lingua infinitesima che nella lingua data si cerca. L’opera è quindi la ricerca, il moto a luogo, lo spasmo iniziatico che glissa anche tematicamente sull’intenzione che lo motiva. Vista così la minorità ha in sé qualcosa di fraudolento. “Se [l’autore minore ndr] è un bastardo, se si vive come un bastardo, non è per un misto o un miscuglio di lingue, ma per la sottrazione e la variazione che ha operato nella sua stessa lingua, a forza di tendervi tensori.” (2) Un tensore si può definire abbastanza genericamente come ente astratto che rappresenta quantità fisiche indipendenti dal sistema di riferimento in cui sono inscritte. Partendo da questo presupposto, l’autore minore può essere colui che incarnando furtivamente la sofisticazione di forme astratte, si applica in modo indipendente, imprevisto, inesistente, nell’ambito di una lingua data. L’opera minore intesa in questo senso è una frode: partendo da un presupposto che l’autore millanta, rende visibile un oggetto che non è l’eminenza intorno cui si aggira il dialogo poetico. A volte non lo sarà caparbiamente fino all’ultimo, altre, come nel caso di questo libro, l’oggetto sarà smascherato alla fine come una colpa, seguendo una parabola che partendo da una nomina apparentemente franca, ne rivolterà il senso fino a renderlo inequivocabilmente riconoscibile altrove.

Come precisa a premessa del libro la curatrice e traduttrice Paola Del Zoppo, il titolo originale Keeping Mum  già schiude una molteplicità di indicazioni entro cui la poesia di Gwyneth Lewis si snoderà in un ambito trasversale, e vagamente ambiguo, rispetto ai significati dichiarati. Significati che la poetessa accosta allo scopo di evidenziarne differenze che schiuderanno aperture del tutto impreviste. Il libro è diviso in tre parti. La prima parte prende il titolo scelto per l’edizione italiana L’assassino della lingua. La seconda parte, prende il titolo originale con cui il libro è uscito nell’edizione inglese Keeping Mum  “tacere, stare in silenzio”. Titolo che secondo la Del Zoppo è complicato idiomaticamente dal “Mum” proprio per richiamare in modo equivoco una vicenda d’ambito materno. Effettivamente, leggendo di seguito ci si rende conto che teorizzare una sintesi  dei due titoli, dando a essi il senso di un atto terribilmente concreto usato sulla lingua per mettere a tacere la sua componente materna, non si allontana di molto dai contenuti reali che la poetessa si è imposta di esprimere. La terza parte si intitola suggestivamente Chaotic Angel.

In queste poesie “il rapporto tra madre e figlio si fa anche rapporto tra poeta e lingua madre” asserisce la curatrice schiudendo un approccio ulteriore a questo testo che tuttavia all’inizio, nella sua molteplicità di piani, non pone al lettore  la complicazione di essere capito ma anzi come una vera e propria trama, espone in modo sistematico un tentativo di discernimento interiore che ha la lingua come movente in tutte le sue infinitesime connessioni con l’essere. “Vivo una doppia vita” Scrive la Lewis nella prefazione  “Mi hanno cresciuta parlando una lingua che risale a prima dell’invasione romana della Bretagna. Quando sono spaventata impreco in antichi idiomi brittonici.(…) La prospettiva di perdere un’intera cultura è un incubo esistenziale per un parlante gallese, terrorizzato da interrogativi che investono le proprie responsabilità nel preservare valori collettivi senza diventare una mummia del passato”. Il punto di partenza dichiarato della Lewis è dunque un sentimento di duplicità materiale riguardo la lingua che è una, nel momento in cui la si sceglie o essa induce chi parla/scrive, in un momento imbevuto di particolare emotività, a scegliere se quella madre o l’altra sommariamente condivisa. La prima poesia, quella che schiude la parte iniziale del libro, indica lapidariamente il momento di questa scelta come un vero proprio omicidio che il poeta compie. La Lewis con un distacco impareggiabile individua il soggetto che può aver compiuto il crimine, un poeta, il movente, un rapporto annoso frammisto di odio e amore, la fuga dalla consuetudine distruttiva del vocabolo materno e infine la colpa

 Avrei potuto salvarla?

farla sentire a casa?

 il poeta nelle pagine successive diventa la figura equivoca che si rivolge all’investigatore con i toni del rapporto patologico che lo legava, prima dell’omicidio, alla sua vittima lingua/madre. Ma è solo l’inizio. Il libro si articola come s’è detto in tre parti distinte, di segno comunque diverso pur animate dalle stesse dicotomie che i titoli delle tre sezioni esprimono richiamandosi più per analogia che per logica

 Allora seppi che

le madri non vivono su rette vie.

Il suo mondo era ripiegato, aveva il dono

Della tenerezza, della sveltezza e del saper mentire.

La mia fede nella schiettezza fu minata.

Sempre con passo pesante ero indietro di molto

un’attenzione millimetrica è quella che lega madre e figlio, poeta e lingua squadernando ogni impianto successivo che non sia quello preliminare di un tempo soltanto posseduto dalla madre. Tempo le cui lungaggini diventano tradimenti intollerabili del tempo di vivere e quel primo acchito piazzato quando nulla è conosciuto se non attraverso la nomina materna del primo suono udito, deve essere in un modo o in un altro defenestrato se non si vuole morire prima della morte di lei, della madre, della lingua sua, non nostra. Così la poetica di Gwyneth Lewis agisce per sottomultipli di se stessa, dilata significati ulteriori e consecutivi da punti di partenza insospettabili  

 Tengo

me stesso per me. Suppongo lei abbia udito

le voci sui grandi felini a caccia di pecore.

Interroghi sull’uccidere le creature già spente

E le bestie feroci dentro la mente  

 creature già spente e bestie della mente sono la fauna abituale di un campo selvaggio in cui si gioca ogni egemonia fosse anche quella ipocrita delle consuetudini falsamente mansuete, che quelle brute che assicurano la sopravvivenza, restando ciò perfettamente valido nei casi parentali e nei casi linguistici. Così facendo la Lewis mette in luce lingua e genìa come lo stesso fatto che necessita il trattamento estremo, di una schiettezza che possa maturare una risposta conoscitiva alle domande che l’evoluzione impone. Ma naturalmente c’è dell’altro. Molto altro. In una delle poesie più significative della prima parte intitolata Afasia la poetessa scrive lapidaria e lancinante

 Qualcuno ha tagliato il filo

tra le parole e le cose cui si uniscono,

così la mia mente è una rigatteria di dove sono stato.

Non saprò mai cosa intendo davvero

 il filo che lega cose e parole rappresenta l’intersezione che il linguaggio tenta col mondo. La possibilità di questa rescissione oltre a schiudere la parte successiva del libro riferisce chiaramente la morbosità che l’ossessione linguistica genera nella sua pratica costante: “qualcuno” ha diviso il tempo in due mandati, lo ha spartito creando  tra esso e noi un baratro che distanzia dai significati, e ciò accade soprattutto a chi si è separato dai significati comuni con la civetteria di rintracciarli sotto nuove forme per poi scoprire che queste gli mentono. E’ con questo presupposto che la Lewis apre la parte successiva  del libro, ossia quella che attraverso la finzione di dialoghi tra pazienti psichiatrici e medici parla dei disordini mentali a cui questo genere di confusione linguistica porta, che è la confusione del bilinguismo di un’esperienza realmente straniante, tuttavia intesa nella stessa misura del bilinguismo monoglotta a cui la psiche del poeta è sottoposta nel suo rapporto con la madre lingua. Lingua  madre che pur avendolo partorito, egli sente straniera. “Di fronte all’esperienza” scrive ancora nella prefazione la Lewis “le nostre interpretazioni crollano sempre. Senza essere un fallimento però questa mancanza di parole è, di solito un inizio che ci avvicina a qualcosa di più vero della nostra stessa percezione della vita: il keeping mum che da il titolo a questo libro”. La mancanza di parola, la resa all’almanaccare recondito del silenzio, là dove prima la lingua biforcava la stessa esperienza in due contrapposizioni apparentate e sconnesse non è una sconfitta, dice la Lewis

 Si, sono a favore dell’uso delle pillole,

ma il mio lavoro principale è tradurre

il dolore in storie che possono tollerare

in un’altra lingua. Abbiamo un piacevole giardino.

Le andrebbe di seguirmi nei miei giri?

 è la voce educata dello psichiatra che non lascia il minimo dubbio su quello che la Lewis intende come pratica della cura. Dopo l’assassinio il silenzio si fa madre. La lingua ridotta ai bisogni di prima che sopraggiungessero le cose, ridiventa sé stessa, l’origine senza discendenza che marca la lingua in quanto essere di uno e di esso solo. Pur mantenendo tutta la colpa, e tutto il dubbio che il gesto sconsiderato di uccidere fomenta

Quel cadavere di cui parlavo?

Penso di essere io

 in una poesia che si intitola Mania adolescente, attraverso l’ennesimo dialogo tra paziente e psichiatra, la poetessa traspone il labor limae della creazione poetica, come un’esperienza ingenua dagli accenti vagamente erotici tra due adolescenti 

E lei mi mostrava come stringere e spingere

Il filamento del fiore attraverso lo stillo

E posava la goccia di nettare sulla lingua,

vaccino per la dolcezza. Tutto si disfece

senza ragione nei bagni un giorno

quando il gioco diventò uno strangolamento

per infedeltà

 i livelli di senso si chiudono come in un rapporto inversamente proporzionale all’ampiezza dei significati. La matriosca più grande, il dialogo terapeutico si schiude all’immagine di un rapporto sottilmente perverso tra due giovani, rapporto che a sua volta partorisce la metafora che cambia i protagonisti, i due ragazzi diventano il poeta al suo primo istinto di provare e poi di violare la regola linguistica, le pruderie vengono date in pasto all’istinto di inficiare l’ordine della lingua  fino alle estreme conseguenze

 “Ha ragione, non ricordo l’uovo

Prima che si rompesse. Quando era intero,

come una parola riempiva i miei palmi di sei anni,

oblungo completo e un po’ caldo,

un dono per mia madre. Mi ricordo il sussulto –

un ortensia blu e un morso alla lingua –

il dolore del midollo senza mani

libere per proteggermi. Il cane

venne a leccare l’orribile tuorlo

colante dalle mie dita, una sconcertante colla,

dallo smerlato puzzle di guscio”. Lunga pausa. “Sentivo

di essermi spezzata io, perché con tutta la mia cura

non potei salvare il mio tesoro”. Momento anche più lungo.

“Non sempre un uovo è prezioso intatto.

Era ancora un uovo pur essendo sfatto”

“Oh Dio. Non lo dica. Una vita con un senso di privazione

Costruito su un’errata traduzione?” “Le probabilità sono buone.” 

un uovo intero è una parola che riempie il palmo di una mano piccola, la sua interezza è un dono alla madre, quanto all’intero, la sua forma chiusa è esaustiva se la parola è univoca, irrevocabile è il suo contenuto, neanche serve l’immaginazione che distrugge il fatto della sua interezza. Ma l’immaginazione arriva lo stesso, l’uovo si infrange. La parola tracima bave da quella che era la sua chiusura. Il danno è fatto. Dopo di che l’uovo manifesta strane partecipazioni. La frattura del guscio pare corrispondere a un punto preciso della colonna vertebrale di chi l’aveva in mano, tuorlo e albume chiamano il cane per proseguire il viaggio nella sua ingestione. Pausa. Questa storia è raccontata a un medico che interviene con la sua scienza a deprivarla del pathos: un uovo è sempre un uovo, che la bambina lo rompa, che la madre non l’abbia, che il cane se lo mangi, rimane un uovo. E la quieta albagia di questa rivelazione non fa che aumentare l’intensità del fendente. Che un uovo sia comunque un uovo è il colpo di scena che vale le convinzioni della vita schizofrenica di chi invece di dire “parola” dice “uovo”, invece di dire “madre” dice “lingua”. E di seguito è  come se a parlare fosse una strana paziente psichiatrica che invece di curarsi si arroga il diritto di dare istruzioni per l’uso  

 Ci vuole pazienza, il discorso è timido

non verrà se sei chiassoso

o chiedi sempre perché.

 

Uso il silenzio come mimetica

per ingannare gli animali.

Dentro faccio il tè, 

 il silenzio sopraggiunge dopo la rottura, dopo l’omicidio in un picco stordente che annulla tutto ma che non lascia traccia materiale, se il fatto è così bene occultato da evitare la seccatura di domande indiscrete, si è nell’inferno del sogno in presa diretta. Le poesie cambiano titolo ma seguono per tutto il libro un mandato molto preciso  dato loro dalla poetessa, quello di segnare (nel senso di apporre segni) un percorso in modo da rendere quell’inferno riconoscibile se non perfettamente conscio, in una certa misura abitabile

 La salvezza è giù

 Un po’ più infondo, se solo hai il coraggio

Di guardare in su il buio frastagliato. Quella è aria,

 

grida, abbaiare di cani, mani calde e funi.

Mira al buio. E’ la tua sola speranza  

 abitare l’inferno come fosse una zona defraudata dalla logica, una zona defraudata, vissuta ora per ora nell’imbarazzo dell’astensione, della distanza covata come un intendimento di comprensione che alla fine fa la sua rivelazione ma nell’ambito di una tempistica da cui il resto è totalmente estromesso

 Vivo a distanza

Dalla mia stessa vita,

una vera provinciale. Questo ritardo

mi è costato tutto …

 ma la Lewis è generosa e addensa questo caos di angeli che nella terza parte del libro propongono l’epifania che non può che chiudere questo affresco straordinario. Con un gesto amaramente ironico prima  si chiede, evocandola, dove sia l’acustica dell’angelo, e si risponde con una certa semplicità  tesoro, il chiurlo, la pioggia che incalza. Ironia che poi perde ogni distacco impiegato all’inizio nell’ambito della descrizione dell’omicidio e dell’occultamento di cadavere: quello che era a monte un mentito corpo a corpo tra poeta e lingua, tra madre e figlio, diventa infine, la rappresentazione  plausibile dell’energia senza oggetto su cui si regge, nell’incertezza più totale, il silenzio dei vivi di faccia alla morte  

 …con la terribile energia dei morti

la cui morte ha più vita di quanto possa reggere la carne,

una nascita, non una fine. Questa verità ha fatto 

a pezzi gli uomini. Poi invece di lui cantò il silenzio  …

Non l’ho mai dimenticato. No, non chiedere

della morte. La vera prova è riuscire a vivere.  

L’assassino. Gwyneth LewisGwyneth Lewis, L’assassino della lingua, Traduzione e cura Paola del Zoppo, Del vecchio Editore, Roma, 2007

L’assassino. Gwyneth Lewis

Gwyneth Lewis è nata a Cardiff, Galles, nel 1959, dove vive attualmente. E’ una delle voci più interessanti della nuova poesia inglese. E’ stata designata primo poeta nazionale gallese 2005. Ha pubblicato sei libri di poesia in Gallese e in Inglese.

(1) e (2) Il testo originario è Gilles Deleuze & Felix Guattari (1980). Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie. Les Editions de Minuit. La citazione è tratta dalla terza edizione (novembre 2010) della Castelvecchi Editore, a cura di Massimo Carboni, traduzione dal francese di Giorgio Passerone: Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. pag. 152


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