Oggi voglio parlarti di una tematica che mi sta molto a cuore e che ultimamente mi si è presentata spesso nel mio lavoro di Sport Coaching con atleti e squadre di alto livello.
Mi sento un privilegiato, perché nella mia attività ho la possibilità di essere quotidianamente a contatto con professionisti che trovi sui giornali, che sono seguiti e visti da decine o centinaia di migliaia (quando non addirittura milioni) di persone, che sono degli idoli e dei punti di riferimento per tantissimi giovani.
Mi sento un privilegiato, perché ho la possibilità di lavorare insieme a ragazzi che non sono ancora professionisti, ma che si comportano come tali, che fanno i salti mortali per inseguire il loro sogno e conciliare la scuola o l’università, il lavoro e lo Sport, facendo enormi sacrifici.
Mi sento un privilegiato, perché ho la possibilità di conoscere la persona che sta dietro l’atleta e spesso scopro persone straordinarie, con storie straordinarie.
Mi sento un privilegiato, perché grazie al mio lavoro posso venire a contatto con il lato “umano” dell’atleta, la parte “terrestre” dell’”extraterreste sportivo” che tutti conoscono.
E proprio di questo mi fa piacere scrivere in questo mio post. Ho deciso di condividere con te questa mia riflessione: “quanto siamo interessati alla persona e quanto invece siamo interessati all’atleta?”. Ti riporto questa domanda perché negli ultimi mesi ho lavorato con diversi sportivi che hanno attraversato momenti di difficoltà: infortuni, momenti di appannamento, problematiche personali, che ne hanno pregiudicato la prestazione e il rendimento in gara.
Nella nostra attività di Sport Coaching spesso veniamo chiamati per fronteggiare al meglio proprio queste sfide, ma capita anche che società o professionisti “illuminati” ci chiamino in momenti “non sospetti” perché si rendono conto di quanto la componente mentale sia importante per la loro prestazione. In questo secondo caso abbiamo la possibilità di notare meglio cosa cambia quando un atleta sta vivendo un momento di grande forma e di grandi risultati, rispetto a quando invece sta passando un periodo non particolarmente felice.
Soprattutto per gli sportivi a livello professionistico (anche se in realtà fatte le dovute ritarature vale un po’ a tutti i livelli), quando sei “al top” naturalmente tutto va bene, tutti ti cercano, sei sotto i riflettori e le cose sembrano andare a gonfie vele. Poi, come naturale, può capitare che arrivino le difficoltà, non parlo solo di quelle sportive, ma quelle che accadono ad ogni essere umano, quelle che la vita ti para davanti a prescindere dal tuo nome!
In questi momenti cambia un po’ tutto e cambia anche il modo in cui le persone ti vedono e ti seguono, talvolta anche quelle “pù vicine” a te.
La società ti identifica spesso come “investimento” da mettere a frutto, l’allenatore come un mezzo per raggiungere i suoi obiettivi e gli obiettivi della squadra.
Per i tifosi per cui prima eri “un fenomeno” adesso sei diventato “un brocco”.
Gli “amici” che avevano “un trofeo” da esibire perché “fa figo” conoscerti, adesso si fanno sentire un pochino meno, e così via.
Un atleta lo mette anche in conto, solamente che talvolta, quando ti riguarda in prima persona, anche se sai che “ci sta” e “fa parte del gioco”, rimane comunque un vuoto. Per quanto razionalmente si possa essere preparati, può essere che emozionalmente si faccia fatica a venirne fuori, anche perché come si dice “quando si cade dall’alto la botta fa più male”.
Credo che il Mental Coach, forse più di qualunque altra figura, nel suo lavoro di Sport Coaching con gli atleti, debba sempre tenere conto di questo. Nella mia testa prima dell’atleta viene sempre la persona, non fosse altro che perché quando la persona sta bene l’atleta performa meglio.
Troppo spesso mi sono sentito dire “Ho dovuto affrontare l’infortunio tutto da solo, sono spariti tutti”, “Alla gente non frega assolutamente nulla di come sto, a loro interessa che giochi e che segni” e così via.
Talvolta basta veramente poco, spesso un “Come stai?” detto col cuore, detto con empatia verso la persona e non per sapere quando potrà giocare la prossima partita, può aprire veramente le porte di una conoscenza più profonda e di un rapporto più solido!
Naturalmente non voglio fare di tutta l’erba un fascio ed ho avuto ed ho tuttora la possibilità di lavorare con allenatori e società che hanno atteggiamenti completamente diversi, mi è capitato ad esempio di sentire frasi del tipo “A me interessa innanzitutto che stia bene, poi parliamo di quando rientrerà”.
Intendiamoci, non voglio fare il “buono” e il “santo”, so perfettamente che lo sport a livello professionistico (per alcuni sport più di altri) è un business con investimenti che vanno salvaguardati e risultati da “portare a casa”, dico semplicemente che un’attenzione diversa verso la persona spesso produce risultati migliori anche sull’atleta e troppo spesso per fretta, per mancanza di sensibilità o semplicemente per disattenzione ce ne dimentichiamo.
Come diceva Giobbe Covatta “Basta poco, che ce vo’?”.
Penso che il film “Jerry Maguire” possa essere un bellissimo esempio del concetto che ho cercato di esprimere, quindi se non lo hai ancora visto ti auguro buona visione!
Alla prossima
Di Pasquale Acampora