Magazine Bambini
Emocromo fatto, glicemia pure, ECG, GPT, PTT, tamponi. Manca la visita anestesiologica, il coraggio e la data.
Per dovere di cronaca anche questa volta mi tocca un cesareo, in anestesia generale, e quindi negli ultimi giorni, sarà inevitabile fare la spola tra un ambulatorio e l’altro. Una pacchia e una goduria, passata praticamente seduta su bidoni di lamiera, ad aspettare senza logica e senza fila. Questo però è l’ospedale e poco, a parte rassegnarmi mentre l’anima si avvelena, posso farci. Dopo tre ore e mezzo dal mio arrivo qui, sono ancora a metà percorso. Una strana procedura burocratica mi ha portato ad aspettare fuori dalla sala parto, che non è proprio il posto più indicato per chi, come me, è a 36 settimane di gravidanza.
La porta verde è praticamente blindata, c’è un divieto d’accesso che occupa tutta una vetrata, e un piccolo citofono bianco dice “è inutile suonare, qui non aprirà nessuno …”. Il cartellone alle mie spalle è pieno di nomi: Angela 3 kg e 200, Benvenuto a Ettore, Gabriele la gioia dei nonni e poi ancora Tommaso, Matilde, Francesco (tanti Francesco per la verità), Giorgia, per fino un eccessivo Napoleone. Davanti al cartellone, sedute in fila ordinata, con le mani che tamburellano sulle ginocchia ed i piedi sul pavimento, ci sono loro, le mamme, in attesa delle figlie che la dentro stanno urlando per dare la vita. Attrici non protagoniste di un film che conoscono e quasi comparse messe all’angolo dal ciclo della natura. Sui loro visi le scene che per prime hanno vissuto anni fa. Combattute tra la gioia di quel miracolo e il patimento per non riuscire ad evitare quel “dolore” alle loro “bambine”e forse nella mente, il ricordo del loro di parto. Di quando i papà non potevano assistere alla nascita dei propri figli e aspettavano fuori, in attesa che un’infermiera compassionevole portasse loro notizie. Ora i papà sono tutti la dentro, vestiti verdi come “lucertole” ma bianchi come lenzuoli. Uno di loro ogni tanto esce, fa capolino da dietro la porta e, con un segno con della mano, dice che è tutto ok, poi rientra. Loro, le mamme, sorridono non convinte, ne teanto meno tranquille ed aspettano.
Ne vedo alzarsi una, camminare e mettersi laggiù in fondo al corridoio, vicino alla vetrata, forse per non sentire, forse perché ha riconosciuto, tra le altre, la voce della sua piccola. Vorrei avvicinarmi e dirle che tutto sta andando bene e come deve, che presto sarà finito e lei sarà, oltre che mamma, nonna ma inevitabile si fa strada in me, il pensiero, che se la vita me ne darà l’opportunità, tra un bel po’ d’anni, forse ci sarò anch’io seduta su quelle panche in attesa, con le mani che tamburellano sulle ginocchia e i piedi sul pavimento ad aspettare. Proprio come oggi, ma con un obiettivo diverso.
Improvvisamente la porta si apre, lui esce: è nato. Baci, abbracci, congratulazioni e molte lacrime. Dietro un’infermiera fa capolino: “Chi è la Signora che deve fare la visita anestesiologica?”… ecco tocca a me. L’attesa è finita...per tutte.