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Mai un film, per altro, ha fatto la sua fortuna su un esplicito e tragico malinteso: il carpe diem, "cogli, cattura l'attimo" che imperversa sulle bocche dei protagonisti, gioca due ruoli diversi. Uno, ancora ambiguo, ma vicino alla verità, è quello del professor Keating: egli, nuovo professore di letteratura inglese al Welton College del Vermont, invita, sulle orme di Orazio I,11 attraverso il teorico della disobbedienza civile, Henry David Thoreau, a catturare l'essenza della vita, a "succhiare il midollo della vita". Suggestiva attualizzazione di un eterno pensiero "epicureo": vivere la vita reale fino in fondo, non desiderare altro, ma sprofondarvi.
Ma il prof. Keating, com'è normale che sia, ha un uditorio meno propenso di quanto immagini a fruire la vita con un simile abbandono estetico. I suoi ragazzi fanno i conti con una radicale mancanza di libertà personale che mina alla base le possibilità di ascesa o di conferma sociale che la posizione e il denaro dei genitori sembrano garantire loro. Ciascuno di loro vive come fosse solo un momento di passaggio tra il bozzolo di felicità che la sua presenza garantisce alla famiglia in cui cresce e l'aspirazione della stessa. Sono ragazzi che esistono in prospettiva e la presa su di loro dello stravagante prof. Keating consiste nel cogliere l'essenza di ciò che loro sono quando li incontra: è proprio Keating a cogliere l'attimo e la verità in loro.
Ma il docente compie un errore fatale non vedendo in loro più dei giovani interlocutori che vuole svezzare, emancipandoli oltre ogni tollerabile ingerenza. Nonostante correttivi in corso d'opera, e in particolare quando, alla fine, la situazione si fa più drammatica, Keating strappa i ragazzi alla pigrizia mentale che, se non altro, aveva il merito di confermarli nella loro posizione. Li strappa con la forza a volte un po' sgarbata dell'entusiasmo e della romantica, profondissima sincerità che lo anima. Così, i ragazzi ricevono lo strappo proprio laddove si aspettavano, direi anche legittimamente, un ostacolo da valutare e da superare. Keating, per amore e con amore, precede i suoi ragazzi lungo la via del rifiuto, costringendoli a una corsa che, almeno in un caso, si rivelerà fatale.
La scena, famosissima, in cui il docente invita, anzi costringe a strappare le pagine dell'introduzione su cosa sia la poesia di J. Evans Pritchard, è molto più di una mera provocazione: intanto, in una società protestante - legata più di quella cattolica - all'essenza del libro e della verità, quasi di fede, che contiene, sul piano simbolico lo strappo è molto più violento di quanto si possa avvertire, per esempio in Italia. In più, e proprio sullo stesso solco, un approccio che miri a dominare la materia poetica con una logica matematica che la classifichi e la oggettivizzi a "beneficio" dell'uomo moderno e della sua istruzione, è antitetico rispetto a ciò che Keating propugna a ogni pie' sospinto: leggere la poesia con i propri occhi, con il proprio sguardo, con il soggetto - e non gli interessi di una comunità - in primo piano. Normale che io, personalmente, ambisca a questa lettura della poesia. Ma ciò accade anche perché io ho introiettato il mio essere membro di una società, una società che tengo presente anche e perché me ne distacco. Sarebbe bastato questo passaggio, quest'autonomia come parte della tradizione, e non antitetica, per salvare la vita di un ragazzo e la carriera di un docente senz'altro eccezionale.
Un docente, Robin Williams, che io non ho mai voluto essere (e, senz'altro, non potrei mai essere). Ma un docente da cui, più che da chiunque altro, insieme al mio professore di filosofia, ho imparato ad amare i poeti. Che emozione, quando anni dopo lessi Walden di Thoreau (preparavo il secondo esame di Greco all'università) o, molto dopo, riscoprii Robert Frost, quasi da solo e quasi per caso (lo ricordo benissimo, ero a Ginevra)!
E vent'anni dopo aver visto e rivisto L'attimo fuggente di Peter Weir, Frost, Whitman sono stati la risposta nel riincontrare il selvaggio Charlie Dalton (Gale Hansen), il dolce, ostinato, romanticissimo Knox Overstreet (Josh Charles), l'ambizioso Richard Cameron (Dylan Kussman), il sorridente camerata ribelle Gerard Pitts (James Waterston): è stato attraverso la poesia, l'esperienza, l'amore che ho potuto sopportare l'urlo straziante di Todd Anderson (Ethan Hawke), l'urlo strappato a un'anima timida nell'apprendere della fine del povero, irrisolto Neil Perry (Rober Sean Leonard). Poesia ed esperienza mi hanno spiegato il rigore del preside, Mr. Nolan (Norman Lloyd) e di Mr. e Mrs. Perry (Kurtwood Smith e Carla Belver) o il tiepido disappunto di McAllister (Leon Pownall).
Tutti attori assolutamente straordinari, dal primo all'ultimo (con particolare merito per i giovanissimi che allora debuttavano o giù di lì in una pellicola di così grande respiro). Sono anche stanco di sentire ridimensionare il Prof. Keating come personaggio e tutto L'attimo fuggente di Peter Weir, con la stessa esclusività della logica che stava alla base dell'introduzione di J. Evans Pritchard sulla poesia: come se Dead Poet Society fosse un film meno importante di quanto allora si fosse pensato (in particolare, rispetto all'altrettanto bello Il club degli imperatori di Michael Hoffman). A me, L'attimo fuggente continua a sembrare un autentico capolavoro, un film che racconta una storia e che insegna, come le storie di uomini che vivono, che amano, che ci deludono e che persino muoiono possono dirci qualcosa. Se le ascoltiamo.
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