Procedendo per la via, in quello stato di svagatezza, tipico di una fine serata preceduta da una faticosa giornata di impegni, di caldo rovente e di corse (a coronamento di una settimana altrettanto impegnativa), mi sento salutare in maniera espansiva.
Guardo con fare interrogativo una donna sui 55 anni, abbastanza ordinata (indossava un vestito blu scuro, appena scollato), capelli e occhi castani su un viso abbronzato (ma poteva essere scambiato anche per il suo incarnato naturale) con un sorriso aperto sui denti bianchi che presentavano soltanto una leggera irregolarità nella parte inferiore dei due incisivi superiori centrali.
Al mio sguardo incuriosito e perplesso la donna, sempre con quel suo sorriso espansivo e confidenziale, mi chiede: “Dove lavorava lei 25 anni fa?”
E’ una tecnica che usano i maghi. Prima ti fanno parlare e poi, agganciandosi alle tue parole, riannodano un discorso in maniera naturale, facendoti credere di sapere ciò che non sanno e di essere ciò che non sono.
Del resto, è noto a tutti, che nelle società arcaiche, la recitazione e la magia andavano a braccetto.
E d’altronde chi può dubitare che un buon attore sia altresì un buon mago? Non ti fanno forse credere, i grandi divi dello schermo, di assistere e di partecipare a delle vicende reali, mentre razionalmente dovresti sapere che si tratta di finzione e nulla più?
Naturalmente tutte le persone che dimostrano gli anni che hanno, pur non apparendo e non essendo ancora in età pensionabile, hanno presumibilmente un trascorso lavorativo collocabile, a ritroso nel tempo, a 25 anni prima.
Per cui alla domanda della sconosciuta ritorno istintivamente indietro con la memoria a un quarto di secolo fa. Io allora insegnavo a Guspini ma, potete giurarci, che se avessi detto Sanluri, o Cagliari, o Roma, o il Palazzo di Giustizia, o l’Ufficio del Registro, o la Genovese Gomme o che so io?, la ditta Vattelapesca di Canicattì, la bella signora avrebbe saputo elegantemente inserirsi nelle pieghe recondite dei miei ricordi!
Infatti la sconosciuta si aggangia bene: “Io lavoravo nel panificio di mio padre, si ricorda?”
Veramente io avrei pensato che fosse una bidella (ce ne sono anche di eleganti ed espansive, ve lo posso assicurare), oppure un’impiegata della Pretura di Guspini o di Sanluri, però proprio non me la ricordavo. Le ho anche chiesto, ingenuamente, come facesse a ricordarsi di me, posto che venticinque anni fa ero davvero completamente diverso. Ma ci sono persone che rispondono soltanto alle domande cui conviene rispondere, come certi testi reticenti o subornati. E poi, avete mai sentito di un lavoratore italiano, che non compri il pane fresco per sè o per la sua famiglia almeno una volta al giorno?
In maniera astuta e naturale la sconosciuta passa a parlare di sè! - “Ero a fare la chemio” – mi dice. E sembra lì, lì per svenire, mentre si appoggia alla vetrina di un negozio.
Le osservo i capelli. Purtroppo ho avuto episodi di chemio terapia in famiglia; e conosco bene il suo effetto devastante anche sui capelli. I suoi non mi sembrano capelli che abbiano subito l’oltraggio della chemio. Le donne che vi sottopongono, di solito, perdono completamente i capelli e, quando ricrescono, almeno inizialmente, se si tratta di donne non più giovanissime, restano bianchi e corti; ci sono i tempi della normali della riproduzione e dell’allungamento e le precauzioni sanitarie, che suggeriscono di non tingerseli ancora. Intravvedo alla base del cuoio capelluto della mia interlocutrice occasionale una leggerissima ricrescita. E la sua capigliatura non è comunque una parrucca.
Tutto questi dettagli li colgo mentre la fantomatica signora è già passata alla terza e ultima parte del suo piano. Con una lacrima (che razionalmente definirei “finta” ma vi assicuro che non lo sembrava affatto) mi dice che nella sua ricerca spasmodica di danaro le mancano soltanto 120 euro; per pagare le bollette e con due figlie da mantenere. Mi ribadisce che il tumore le ha intaccato i polmoni e, sottolineando che lei aveva una quinta, fa per mostrarmi il seno sinistro che avrebbe subito la mastectomia. Naturalmente la fermo, anche se non posso fare a meno di notare che oltre la scollatura, la carnagione è di colore bianco-latte: quindi, non di incarnato naturale è la sua bella e colorita abbronzatura.
Io non giro mai con molti soldi in tasca e pago regolarmente con la carta bancomat anche le spese frequenti del supermarket (non quelle, sempre più rare, in verità, dell’edicola e del bar).
La vicenda però mi ha emotivamente coinvolto. E anche se ho giurato di non dare più da soldi a sconosciuti, per strada, penso a come posso aiutare quella sventurata.
Ho giurato di non dare più soldi a sconosciuti da quella volta in cui ho scoperto che un finto rappresentante, elegantemente vestito e dotato di regolamentare valigetta 24 ore, al quale avevo, con convinzione, consegnato l’unica banconota da 5 € che mi ritrovavo in tasca, era in realtà il figlio di una famiglia ricchissima della mia zona di residenza, leggermente disabile e che periodicamente viene a stare con i suoi per le feste comandate. In realtà me l’ero ritrovato nel parcheggio interno, mentre sembrava davvero di essere appena uscito sconsolatamente da una visita di rappresentanza, e si lamentava con me di avere una famiglia e dei figli da mantenere, perchè nessuno aveva comprato i suoi prodotti per l’igiene della casa, di cui lui era raprresentante. Quella volta ho pensato ai suoi poveri filgi, senza latte e senza pane. Ho pensato che quel povero papà sarebbe rientrato a casa almeno con 5 €. Giuro che se avessi avuto di più, gli avrei dato di più. Quella volta ci rimasi però di stucco, quando il sedicente rappresentante, dopo essersi lamentato perchè gli avevo dato soltanto 5 €, si mise ad urlare contro il mondo e contro i Sardi (urlava letteralmente “Sardi bastardi”) con la mia banconota in mano. Più tardi, come detto, scoprii da certi vicini, che la sua famiglia era straricca e che il giovane rampollo, ritardato mentale, occupava il suo tempo e le sue vacanze, fingendo di essere un rappresentante, sfortunato e padre di famiglia.
Anche questa volta, non di meno, coi soldi che ho in tasca, penso di poterla aiutare. Magari potrei portarla al bar e darle da mangiare. O pagargli il pullman, affinchè, nelo suo stato, non abbia troppo a stancarsi.
-” Ma adesso, come fa a rientrare a Guspini?” – le chiedo anche per guadagnare ancora qualche secondo di ulteriore riflessione.
- ” Devo prendere il treno”- mi risponde incautamente la signora.
- “Ma a Guspini non passa il treno!” – rispondo io. E mi viene in mente mia nonna, che veniva spesso da Guspini al mio paese con la corriera dell’ARST (allora si chiamava SATAS, mi pare di ricordare).
-” Signora, ma io non ho capito ancora bene dove è che lavorava lei a Guspini! Mi ha parlato di suo padre….”- le chiedo infine, ormai dubbioso.
-” Mio padre puliva i giardinetti, vicino al cimitero…” mi risponde.
Poco prima mi aveva detto che suo padre aveva un panificio.
Magari era davvero una donna bisognosa. E magari pure malata. Non lo saprò mai, credo.
Una cosa è certa: era un’attrice; o un’impostora; a Guspini non c’era mai stata di sicuro.
Spero che il Servizio Sanitario Nazionale non abbandoni mai gli ammalati. E che la Caritas continui ad assistere i bisognosi.
Io, quando posso, preferisco aiutare le associazioni che fanno beneficienza; e pago i doverosi tributi allo Stato (caspita se li pago!).
E giuro ancora che non darò mai più soldi a chi mi mi racconta panzane per strada!