I LA PAROLA PERDUTA
L’aurora completa della parola sarebbe l’apparizione di quella parola unica chiamata “parola perduta” nelle tradizioni derivate dalla Tradizione. Senza saperlo chiaramente, per trovarla alcuni poeti sono rimasti marchiati e così alcuni famosi filosofi, e perfino alcuni romanzieri. Il che sembra più remoto, dato che il romanzare significa fare storia e la parola perduta non solo sta al di là della storia, ma la annullerebbe se un giorno apparisse davvero e per tutti. E così potrebbero indicare i passaggi, le stazionidi questa Quête della parola perduta come la Quête della storia abolita, e dell’apparizione della vita vivente senza quella dimensione storica “ineludibile”, come si dice negli storicismi mascherati. La vita, è certo, diventa immediatamente storica quando ciò di cui ha bisogno colui che semplicemente vive, l’assimilato alla vita, che allo stesso modo è assimilato alla parola, è la vita vivificante, l’aurora non interrotta da qual Sole che enuncia tutti gli Imperi, compreso quello della potente ragione. L’aurora e prima ancora l’alba annunciano qualcosa che si insinua debolmente, ma anche in modo indelebile: ciò che resta intatto. Annuncio non di ciò che segue, il dominio del Sole, ma del chiarore, se di chiarore si tratta, che è rimasto remoto: una specie di balbettìo, appena un’ombra di luce. E un fuoco sottile che fa freddo, la goccia di rugiada dalla virtù unica che da un fuoco così concentrato produce un segno. E di lì la bellezza e l’errore che nello sguardo acceso da essa suscita: per questo non credere che inibisce il respiro nel momento privilegiato. E così si perde il vigore che dà soltanto il respiro, anche se è una cosa di un istante, nel freddo fuoco dell’alba ancora indecisa prima che compaia la linea dell’aurora. Una linea che traccia l’abisso tra luce e tenebre, che scaglia le tenebre verso l’abisso da cui, per forza, erano destinate a risorgere. Ma prima, prima della separazione, c’è l’alba, prima ombra della luce, e con essa, camminando con essa, avvolta da essa, la parola che si è perduta e che tornerà a ogni alba.
E non potrebbe aprirsi con la parola più immediatamente che “perduta”, con la nostalgia della differenza tra l’ascoltare e il dire: tra la situazione di chi dice la parola e quella di chi l’ascolta? Quella che segna la distanza, abisso può essere, tra il luogo da cui arriva la parola e questo luogo suo punto di destinazione. Dato che in un punto si è soliti sentire quello che riceve la parola all’interno dello spazio che gli occupa. E se questo spazio, “qui” diventa ambito della parola remota, gli sembra allora che sia quello di essa, e che lui, colui che l’ascolta, sia solo un occupante o un testimone indiscreto. E corre trascinato dalla paura come se avesse assistito al sogno di un altro o a un avvenimento di un altro pianeta. Da ciò ci salva solo il fatto che la parola che arriva da quel luogo remoto, penetri, prima di esserci data, all’interno del sentire, approfondendolo, ampliandolo finchè l’ambitodel sentire travalichi i suoi stessi limiti e l’assedio venga infranto. E così fosse e quando così è stato, la parola si dispiega, si fa nel sentire originario del soggetto senza lotta. La parolache così arriva può dire poca cosa, quasi nulla, può essere semplicemente il nomedi quel soggetto visitato; il suo nome che gli viene dato mentre si libera dal suo io.
La parola perduta, rimpianta, sembra offrirsi ogni volta che una parola si fa nell’oscuro sentire che a causa di essa si risveglia; quando la parola tocca e accende il germe stesso della parola. E poi quando se ne va lascia un balbettìo, il non poter parlare e l’ansia di dire senza parola alcuna. Il rapimento che può diventare alienazione se il germinare prosegue. Inevitabilmente appare il lungo, duraturo balbettare di Hölderlin. E il cantico appena udibile di qualche donna scelta e abbandonata che non piange mai. E il rumore appena avvertibile che proviene da qualche campo dove germoglia un seme sconosciuto.
Dato che la parola germoglia fin prima dell’aurora, prima che si estenda quella linea non sempre luminosa che annuncia la scrittura.
II LA PAROLA INIZIALE
“…Non tornerò a parlare come ho parlato. Né a scrivere come l’ho fatto, qualunque sia la formain cui lo feci”, dice qualcuno tra sé e per sé un giorno che rimane perciò segnato. Un giorno che doveva arrivare e che senza dubbio è arrivato, a tutti quelli feriti o almeno saettati dalla parola, da quella parola originale o perciò così ampia, che abbraccia ogni “umana” opera, irreprimibilmente costruttiva. La parola dell’architetto sostenuta dalla parola nascosta, sacrificata: quella ragazza che si trasferisce poi nella pietra di fondazione. La parola, la pietra che serve perdendosi e perdendoci, dato che fu collocata sulla fonte “che sgorga e corre” perfino di notte. e forse solo di notte. Quando lo zittirsi di tutti i discorsi permette di sentire il loro palpitare. L’inestinguibile palpitare di ciò che è davvero vivo.
“No, tornerò a parlare come ho parlato”, che se si eleva a voto produce il silenzio in cui ci si perdona – a noi – loro che l’hanno formulato, a meno che un giorno parlino ormai in maniera diversa.
Ma il voto è una maschera, quando non si impone da sé, senza essere notato. E allora non vieneformulato. Si fa come un silenzio tenue, senza corporeità. E’ un risultato, anzi un frutto che si apre intangibile; un grano di fuoco che è ormai germinato; una forma irriconoscibile, se la si guarda. E per questo che è meglio non guardare. Una presenza che non si sa quando arrivò, e un pensiero senza memoria.
E di questo pensiero nato dal sentire e che non si stacca da esso, resterà memoria? O tornerà al fondo del suo sentire come quella colomba che tornava indietro perchè non era ancora arrivata la fine del diluvio? L’annuncio incompleto, l’incompleta profezia.
Finché alla fine cessano di cadere le acque sopra la terra. Erano forse le acque prime, quelle amare del giorno della creazione sulle quali si posava l’alito divino, il divino e primario palpitare. Smisero di cadere le acque ed emerse quasi disfatta la terra. E l’Uomo dovette uscire dalla sua arca e celebrò le sue nozze con la terra, il suo posto.
tornò a parlare come prima, o cominciò già a parlare una lingua? Una determinata lingua ormai sua e dei suoi, i salvati, che di nuovo si congiungevano tutti su una terra impregnata che un sole implacabile avrebbe asciugato: la grande fertilità all’inizio e poi la siccità, la polvere. E le parole ormai molte disseccate, trasformate in pietre, alcune per fortuna, in “canti” come si dice anche in spagnolo per il cantico e la pietra che rotola senza nemmeno essere sfiorata; il canto non si presta all’edificazione, poiché conserva qualcosa della sua vita iniziale. Pietre dell’aurora anteriore al Diluvio, forse, canti rotolati. Resteranno parole dell’aurora prima? Non assistette alla sua apparizione nessun uomo. Ma la parola divina poté preparare quella che doveva essere data all’uomo, se l’uomo è l’essere promesso fin dal principio dei principi; se la creazione del cosmo è uscita dalle tenebre profetizzandolo. E come un profeta andò a poco a poco restando senza quella parola anteriore a qualunque idioma, perduta. E perduto il respiro e nascosta nella sua radice la voce.
E così comprendiamo che non è parola quella che ci è sfuggita e che potrebbe stare rotolando lì fra tutte, facendosi vedere fuggevolmente in qualche istante. Non sono esse né essa, nel caso ce ne fosse una soltanto, quelle che si perdono. E’ il come del dire e la mancanza del respiro primordiale e del fuoco sottile mai respirato. Lo scoraggiamento che soltanto il riflesso del fuoco potrebbe superare. Non la parola, ma il suo ardere iniziale, fa la sua aurora.
III IL GERME
Forse è l’attrazione del tramonto nascosta sotto l’ansia di un avvenire che si faccia immediatamente presente – un avvenire stabilizzato – forse è il distacco umano di fronte a ogni annuncio di compimento interminabile, un’infinità che crea l’aspettativa; lo sguardo rapido del cacciatore che raccoglie il sole che spunta. e questo oblio, questo lasciare dietro di sé trascurato l’astro che precede l’aurora. E che più che annuncio è guida della luce che arriva indecisa, così senza sapere.
L’astro, chiamato Venere, guida e sostiene la luce. Guida o germe? Qui sulla terra il germe non sembra essere la guida che certe piante cercano torcendosi. Il congenito crescere eliotropico non ha dato ad esse la necessaria consistenza che nella loro debolezza hanno l’erba e la ginestra docile al vento.
La guida del crescere vegetale, è il sole o è la luce? Senza dubbio è essa, dato che in terre poco soleggiate non crescerebbe nulla. E nei deserti bruciati dal sole dovrebbe la loro luce bastare, essere essa acqua. La luce come acqua unica qualche volta?
L’astro trascurato, sarà in qualche religione dimenticata o nascosta, segno di quel germe di luce e di parola che nel pensiero occidentale, ci si manifesta come “Logos spermatikos”? Quel fuoc-seme contenuto nel tempo in qualche teogonia precedente a Eraclito e alla quale si è prestata così scarsa attenzione.
con la teologia di Giustino fu sul punto di apparire nella sua pienezza nel Cristianesimo. Ma venne ben presto respinto. Emmanuel = Dio nell’uomo.
Non è forse seme di vita eterna albergato nel suo essere indeciso, in quell’alba che è la vita umana? Il Verbo divino non fu seminato per nascere in un corpo umano e non si sparse in umana parola?
L’astro unico, fuoco che si fa luce incessantemente, forse è il segno della parola nascosta, della sua invincibile unità si moltiplica infinitamente.
tratto da In forma di parole, 1991, tradotta da Antonio Melis.