L’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo

Creato il 19 giugno 2013 da Monsieurenrouge @MonsieurEnRouge

L’incompatibilità tra austerità e democrazia è un concetto negli ultimi anni sostenuto a più riprese dai movimenti sociali: migliaia di manifestazioni, presidi, cortei hanno attraversato i continenti per dire «our democracy against their austerity» rivelando la contrapposizione tra le due, per ricordare ai presunti paladini dello Stato di diritto espressione della sovranità popolare che «o povo é quem mais ordena».

La modalità di introduzione delle norme che hanno ridefinito il mercato del lavoro per renderlo più “flessibile”, eroso diritti conquistati in decenni o secoli di lotte, aumentato le disuguaglianze sociali, costretto milioni di persone alla precarietà e alla povertà, da alcuni sono state definite “tecnofascismo”. I provvedimenti di privatizzazione dei servizi, smantellamento dello stato sociale, ristrutturazione del debito a suon di tagli, ovvero le famose riforme, in passato imposti ai paesi dell’altra metà del mondo con il nome di “piani di aggiustamento strutturale”, sono stati imposti nei paesi europei scavalcando i parlamenti nazionali, esautorati nelle questioni economiche di primaria importanza dagli organismi finanziari internazionali. Istituzioni non soggette a controllo democratico hanno pesantemente condizionato istituzioni rappresentative: è la “dittatura dei mercati”.

Dal canto loro, i rappresentanti del potere hanno sempre fatto il possibile perché questa narrazione degli eventi prendesse piede e hanno reagito di volta in volta misurandosi sapientemente con la situazione: provando inizialmente a smorzare i toni per tenere a bada l’opinione pubblica, cercando di ricondurre le soggettività potenzialmente sovversive e le loro simpatie alla “ragionevolezza”, ovvero al riconoscimento dell’inevitabile supremazia del mercato con conseguente genuflessione alla sua volontà trascendente (Papademos quando diceva: «sacrifici o baratro»); quando ciò non era possibile, hanno optato per la via della compiacenza, mostrandosi premurosi e comprensivi, chiarendo che le rivendicazioni dei movimenti erano giuste e le proteste sacrosante, ma questioni tecniche imponevano di rimandare la loro realizzazione (Draghi quando diceva: «li capisco, noi alla loro età non abbiamo dovuto aspettare»); quando il riconoscimento da parte delle masse dell’esistenza, nella società, di interessi contrapposti e inconciliabili si è fatto un rischio elevato a tal punto da far scricchiolare le fondamenta della retorica dei sacrifici, la risposta è divenuta repressiva.

I momenti di mobilitazione sono stati spesso teatro di pratiche conflittuali che hanno incontrato la repressione del dissenso in nome dell’ordine. Ecco perché i movimenti sociali, nell’interfacciarsi con queste imposizioni, vi riconoscono il fascismo: si tratta di scelte prese da una ristretta minoranza e imposte con la violenza a garanzia dell’ordine sociale ovvero delle disparità.

È per questo che, durante la campagna elettorale greca dello scorso anno, il tanto sgolarsi dei vertici europei per invitare a non votare Syriza fu motivo di indignazione ma non di sorpresa; lo stesso può dirsi del mancato invito a non votare il partito neonazista greco Alba Dorata: l’austerità è incompatibile con la democrazia, non con il fascismo.

Quello che non era ancora successo era l’ammissione esplicita dell’incompatibilità tra austerità e antifascismo, avvenuta meno di un mese fa e passata quasi inosservata dai mezzi di informazione. Il 28 maggio, la società finanziaria JPMorgan Chase&Co, con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, ha pubblicato un documento di analisi (qui visualizzabile per intero) sull’attuale situazione nella zona Euro, contenente considerazioni sulla funzione a lungo termine dell’austerità, sul suo stato di avanzamento, sugli ostacoli che ne impediscono la piena attuazione.

«La gestione della crisi nella zona euro si è evoluta nel corso degli ultimi tre anni, ma una questione di fondo è sempre stata presente, costantemente: che i problemi esistenti a livello nazionale dovrebbero essere affrontati a livello nazionale prima che la regione intraprenda ulteriori passi di integrazione» recita il documento già nell’introduzione.

«All’inizio della crisi si pensò che i problemi nazionali preesistenti fossero soprattutto di natura economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea»

«I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo»

«I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. Le carenze di tale eredità politica sono state rivelate dall’incedere della crisi: i paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, con esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)»

Praticamente, in questo documento per la prima volta dei banchieri ammettono apertamente che ordinamenti costituzionali basati sui valori dell’antifascismo non sono compatibili con i dettami di quella che ritengono la “scienza economica”, che non è altro che l’economia neoliberista.
In questo modo, il tecnofascismo di oggi giunge alle stesse conclusioni del fascismo di ieri, con la differenza che mentre i fascismi novecenteschi giustificarono la propria azione articolandola sul piano politico, l’austerità viene imposta perché considerata l’unica alternativa sul piano economico. Gli effetti non sono dissimili: è necessario un governo forte che scavalchi facilmente i parlamenti, bisogna abolire le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, non deve essere permesso manifestare il proprio dissenso contro proposte sgradite. Si deve insomma ammorbidire gli eccessi di democrazia, che sono eccessi nella misura in cui minacciano un sistema economico fondamentalmente autoritario, basato sulla gerarchia anziché sulla partecipazione e sulla condivisione: in questo senso, i fascismi del secolo scorso ebbero la funzione storica di frenare gli stessi eccessi.

Una volta lo facevano per difendere «la nazione», oggi lo fanno per difendere «la crescita». Entrambi sono vuoti feticci.

Uno dei pochi articoli sull’argomento: JP Morgan all’Eurozona: “Sbarazzatevi delle costituzioni antifasciste”



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