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L’avaro: la Grottesca Avventura di un Vecchio Cavaliere e del suo Tesoro

Creato il 19 ottobre 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
L’avaro: la Grottesca Avventura di un Vecchio Cavaliere e del suo Tesoro

Immaginatevi un omone vestito di abiti vecchi e logori, non troppo dissimile dai barboni beckettiani che attendono in eterno Godot. Ponetelo in una stanza spoglia, impolverata, le cui finestre sono perennemente chiuse onde evitare il passaggio di luce e, soprattutto, di sguardi curiosi provenienti dall'esterno. A tutto questo aggiungete l'intrecciarsi di romantici quadretti di amori giovanili con il rocambolesco via vai di personaggi a metà strada tra le avventure da mille e una notte e le farse della Commedia dell'Arte.

Sembrerebbe un enorme pastiche di suggestioni simboliche da sottoporre a vari livelli di interpretazione, soprattutto se si pensa che il nucleo cui esse tutte convergono è il genialmente dissacrante Molière. Ma se si considera che l' ouverture di questa folle orchestrazione di eventi e tipi umani è data dall'irresistibile giro di basso di Money dei Pink Floyd, allora la chiave di lettura diventa inequivocabile, ed è la stessa potenza evocativa del drammaturgo francese ad ammiccarci da lontano tramite lo sguardo dell'artista-artefice Jurij Ferrini.

L'avaro è una delle tante opere di Molière che genera il riso pur preservando un gigantesco potenziale drammatico: Arpagone è un vecchio spilorcio scorbutico le cui giornate sono scandite unicamente dal continuo martellio di un pensiero fisso, la gelosa e maniacale custodia del suo denaro.

Inutile dire che questo ha ripercussioni sulle esistenze che gravitano intorno alla sua, e che lui amministra con freddezza e prepotenza: se per la ricchezza nutre un amore smodato, ricavandone l'unica ragione di vita, i figli e i servitori sono valvola di sfogo di una logorante spietatezza e aridità di affetti. Una situazione critica, insomma, che non può non preludere a snodi problematici con esiti persino tragici. Ma qui la mano di Ferrini si diverte a giocare con la materia sempre fresca data da un testo come L'avaro, emblema di quei grandi classici intramontabili, pronti a parlare agli uomini d'oggi per ricordare loro che a cambiare è solo la società e le dinamiche che la governano, ma non l'animo delle persone. "La caratteristica dei classici è proprio quella di attraversare le epoche della storia e rimanere integri anche dopo enormi cambiamenti sociali. Purtroppo non vedo nulla di antiquato in un uomo così ossessionato dal possesso da togliere ogni prospettiva di felicità alla sua stessa prole", spiega Ferrini.

E allora perché non lasciarsi trascinare dalla carica distruttiva di una messa in scena totalmente grottesca? La storia è sempre la stessa, la teorizzazione del riso liberatorio e del carnevalesco rovesciamento dei ruoli è venuta dopo, ma c'è sempre stata nella concretezza della vita poi trasfigurata in letteratura. Arpagone ci fa ridere un po' perché suscita pena, un po' perché è estremamente goffo ed esilarante nel difendere con tutto se stesso - malato, quasi moribondo - la cosa più preziosa che possiede, lottando per ciò in cui crede come il più miserevole degli antieroi, autocondannatosi a una non-vita per la folle paura di vivere spendendo, sprecando, consumando. "Arpagone è un vecchio che per egoismo condanna all'infelicità una generazione di giovani, mentre loro tentano in ogni modo di aggirare la sua prepotenza. Guardandomi intorno, osservando il mio paese, i suoi potenti e i suoi sudditi... Vedo in tutto questo qualcosa di estremamente familiare", confessa Ferrini.

L'aderenza alle dinamiche che regolano i rapporti tra i soggetti economici di questo mondo ultracapitalistico, sono realizzate nello spettacolo attraverso la felice trovata di una serie di entr'acte che rappresentano gli incubi del protagonista, un po' come una versione più ironica delle visite notturne che gli spiritelli fanno allo Scrooge di Dickens o alla tormentata notte dell'Innominato. I brutti sogni di Arpagone parlano di crollo della borsa, invasione dei mercati asiatici... Tutti poi confluiti nel terrore più grande, quello di essere derubato. A differenza degli altri illustri modelli letterari, Arpagone non si redime. Ma la sua figura è troppo macchiettistica per imporre l'annullamento del progresso generazionale, condannando i giovani a un'esistenza infelice, priva di sbocchi. Trionferà la vita, all'infuori di quella casa desolata, mentre l'avarizia resterà rinchiusa, come estremo rovesciamento del tesoro custodito dal mitico vaso di Pandora.

L'avaro di Molière

Traduzione: Sara Prencipe

Regia: Jurij Ferrini - Scene: Nicolas Bovey - Costumi: Alessio Rosati - Luci: Lamberto Pirrone - Suono: Gian Andrea Francescutti - Coreografie: Rebecca Rossetti - Assistente regia: Alberto Oliva - Assistente scenografa: Nathalie Deana - Fotografo: Andrea Guermani

con Jurij Ferrini (nel ruolo di Arpagone), Elena Aimone (Frosina), Matteo Baiardi (Cleante), Vittorio Camarota (Mastro Simone/Gran d'Avena), Fabrizio Careddu (Anselmo), Sara Drago (Elisa), Daniele Marmi (Stoccafisso/Commissario), Raffaele Musella (Valerio), Gloria Restuccia (Marianna), Rebecca Rossetti (Donna Claudia), Michele Schiano Di Cola (Mastro Giacomo), Angelo Tronca (Freccia).

Produzione: Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale

Torino, Teatro Gobetti, dal 7 al 18 ottobre e dal 27 ottobre all'8 novembre 2015


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