L’AVVENTURA di Heinrich Böll (Colonia, 1917 – Bornheim, 1985)
L’avventura è un breve racconto dello scrittore tedesco Böll, premio Nobel per la letteratura nel 1972. Autore noto in particolare per Foto di gruppo con signora (1974), ha scritto anche molti brevi racconti che sto leggendo nell’edizione Mondadori.
Focalizziamo il testo. Il signor Fink sta per entrare in una chiesa. Già l’atto di entrare, in sé banale, si presenta in realtà piuttosto disagevole. Il protagonista non sceglie l’ingresso principale, ma quello laterale. Dopo poche righe l’atmosfera è già cupa e aspra; l’asfalto della strada è crepato, i giardinetti sono minuscoli come se il bello fosse appena sopportato dalla mentalità del tempo, le siepi hanno “foglie dure e vizze come il cuoio”.
L’ingresso nel luogo sacro dovrebbe portare serenità e distensione, di contro alla durezza dell’ambiente esterno. Invece il protagonista sente odore di muffa, deve spingere due porte e la seconda la urta tenendo il pugno chiuso. Non ci appare come un credente umile, ma come un uomo dai gesti bruschi.
Capiamo che è molto a disagio e ha bisogno di confessarsi; l’inquietudine del suo animo lo porta a pregare, o meglio a cercare di farlo. Osserva la chiesa; nota che la navata centrale è stata rinnovata. Segno che da tempo l’uomo non vi entrava. Il risultato di questo rinnovamento? I muri sono “distrutti”, “dentellati”, tutto è provvisorio e precario. Le statue dei santi sono acefale, appaiono come “forme scure e monche”. Fink attende il confessore. L’atmosfera mi ha fatto pensare a quella descritta da Kafka nel Processo, quando K. Incontra il cappellano delle carceri nel Duomo. Poca luce, ambiente disagevole, attesa incerta e goffa. Non è l’ambiente accogliente che un peccatore vorrebbe trovare. Il protagonista ha una colpa; è stato con una donna sposata. Questo lo ha turbato e lo ha spinto in quella chiesa. Ma pentimento e buoni propositi non sono nitidi; l’uomo e confuso, tediato, vorrebbe “liquidare al più presto quella faccenda” e lasciare la città. L’approccio alla colpa è quello dell’uomo moderno, assillato da impegni e poco disponibile ad approfondire i temi etici che lo riguardano. Eppure lui è venuto a cercare parole e conforto in quel luogo sacro. Finalmente riesce a entrare nel confessionale, dopo essere inciampato su una mattonella rotta. Il frate che lo confessa gli fa una serie di domande brevi, impersonali, “come può rivolgerle un medico durante una visita di leva”. Il dialogo, secco e frammentato. si chiude con l’Ego te absolvo. Fink rimane a recitare le preghiere di penitenza, fissando ancora le statue di gesso acefale.
Forse quelle statue ci devono far pensare a una chiesa senza testa, impersonale, fredda. La confessione appare come un rito amministrativo, esercitato in modo impiegatizio. Non è questo che l’incerto Fink si attendeva, anche considerando che nel dialogo scopriamo che l’uomo ha una certa attenzione per i sacramenti. Ma l’adulterio non è il suo unico peccato; c’è un lato menzognero della sua vita professionale, un lato falso che forse riguarda in generale i rapporti tra gli uomini, la società. Non possiamo con certezza dire se l’uomo si sia pentito; ma è un fatto che ha compiuto lo sforzo di andare in chiesa. Qui però ha trovato poca attenzione e poca voglia di approfondire. L’asprezza del paesaggio esterno al luogo sacro fa da pendant con la durezza dell’ambiente interno a esso; le statue monche, la mattonella rotta, l’odore di muffa, la scomodità dell’inginocchiatoio, la poca luce. Eppure le domande dirette del frate, pur all’insegna del formalismo, hanno colpito il penitente che ha trovato quella confessione “terribilmente seria”, diversa da qualsiasi altra. Non possiamo quindi che essere cauti nel giudicare.
Forse la risposta ai temi morali e all’esito del tentativo di approfondirli che si addensano nel racconto stanno nelle ultime righe del testo: “Fink era stanco. Cercò di pregare, ma le parole ricaddero su di lui come sordi ciottoli … ”.