Il nuovo decennio si aprì con la tragedia e con una sanguinosa avventura, in un’Italia che entrava in una mutazione accelerata. Certo, nel mondo erano ancora in campo gli uomini della infinita seconda guerra mondiale contro il fascismo: Eisenhower, Churchill, Chruscev, Togliatti, Tito, Mao… Ma insieme avanzava sulla scena con le sue passioni una nuova generazione di giovanissimi. E la transizione recava crisi. In Italia, forza chiave dell’élite al potere era la Democrazia cristiana, il partito di gran lunga più forte nel panorama politico, e componente necessaria di ogni possibile governo: fosse essa fondata su una intesa tra il soggetto cattolico e la sinistra, o invece una formazione che si servisse – come sostegno subalterno – di quei due brandelli reazionari, che erano il Movimento sociale e i monarchici. Quanto ai liberali erano solo una pattuglia conservatrice, pronta sempre, seppure con qualche bizza, a sostenere l’attore democristiano. Nel maggio del ‘58 si era andati di nuovo alle urne, mentre era in atto l’inizio di una netta ripresa economica e industriale, che segnava finalmente l’uscita dell’Italia dalle difficoltà economiche. E però, contemporaneamente, si apriva tutto un campo di questioni inedite, attinenti alle profonde trasformazioni innestate dalla innovazione fordista. Diviso era anche il partito maggiore: la dirigenza democristiana sosteneva con molte esitazioni la cosiddetta apertura a sinistra: ma il corpo grosso di quel partito riluttava duramente a quella svolta; mentre prendeva forza una corrente che aveva alla sua testa leader furbi e manovrieri come Rumor, Emilio Colombo, Taviani: tutte figure d’impronta moderata che resistevano anche a un’intesa con i socialisti di Nenni. Quella frazione democristiana s’era riunita in un convento intitolato a Santa Dorotea, e da ciò avevano preso quel nome curioso di dorotei che poi divenne quasi simbolo di una manovra politica furba e spregiudicata. Presto il comando della Dc finì tutto nelle loro mani. Con una integrazione importante però: la figura di Aldo Moro: assurto alla segreteria del partito, mentre Fanfani, mordendo il freno, era stato obbligato ad accettare un rinvio del suo disegno di intesa con Pietro Nenni e i socialisti moderati. Dopo una breve e sbiadita transizione che vide a capo del governo un pallido Antonio Segni, il presidente della Repubblica Gronchi, che era politico di chiara storia di sinistra ma peccava spesso di presunzione, puntò su una soluzione strana e inattesa. Affidò la presidenza del Consiglio a un personaggio pressoché ignoto: Ferdinando Tambroni. Quando sulle agenzie di stampa lessi quel nome, non capii. Presto potei verificare che era una figura senza una storia politica che avesse un significato. Difatti non riuscì a trovare sostegni di valore nella mappa politica democristiana: neppure, se ricordo bene, nell’ala di destra che allora faceva capo ad Andreotti. Ma Tambroni era cariaceo e non si lasciò turbare. Accettò di buon grado l’appoggio che si precipitarono a dargli i missini. E Gronchi tranquillamente (stranamente) disse di sì. La collera dei socialisti nenniani, che consideravano ormai come vicino un governo bicolore Dc-Psi, fu grande. Il loro dissenso rabbioso rese ancora più clamoroso l’abbraccio che sopravvenne fra quell’oscuro politico di provincia e la banda missina, che non celò il suo entusiasmo. E dalla sponda fascista, per bocca del segretario Almirante, venne presto l’annuncio della data a breve del loro congresso: la sede scelta era Genova. Apparve subito una decisione pesantemente provocatoria: Genova era una città-simbolo della Resistenza antifascista. Era stata la prima ad insorgere in quell’aprile luminoso del 1945, e aveva letteralmente cacciato dalle sue strade e costretto alla resa le truppe naziste, senza nemmeno il ricorso degli angloamericani. Appena giunse l’annuncio del congresso missino, la città scattò. Il popolo scese in piazza, e Genova fu praticamente tutta nelle mani della rivolta popolare. Presto la protesta dilagò in altre regioni d’Italia, fino alla Sicilia. Tambroni rispose secondo un vecchio, triste codice: scatenò la repressione e mise mano alle armi, e subito insanguinò piazze e strade del Nord e del Sud d’Italia. Presto il Paese conobbe ancora una catena di morti. Gli ultimi giorni di giugno la protesta popolare dilagava a Ferrara, Torino, Milano, Livorno, dove l’urto fra la popolazione e reparti di paracadutisti durò giorni e giorni. A Roma ci fu uno scontro violento e carico di simboli presso la Piramide di Caio Cestio. Ricordo l’emozione di quelle ore: quando, dai gradini dell’ingresso di Montecitorio, si mosse, in un pesante silenzio, quel lungo corteo alla cui testa, l’uno di fianco all’altro, eravamo il questore della Camera Lizzadri e io, presidente del gruppo comunista. Seguiva un fiume di popolo. Quando fummo a pochi passi della Piramide Cestia, e i canti già venivano spegnendosi, improvvisamente si scatenò la repressione armata: come a monito e a ricordare tempi lontani. Alla testa della polizia che attaccava irruppe, scatenato, un reparto di cavalleria guidato da un cavaliere famoso, D’Inzeo. Non dimenticherò mai la sensazione amara di offesa pesante che ci diede l’assalto inutile di quel reparto contro la folla inerme: non motivato da alcuna violenza. E i cavalli incitati a frustate, tra gridi e pianti delle compagne, mentre subito si levavano i canti della tradizione. Ci chiedevamo quali tempi foschi stessero tornando. Una pattuglia di noi riuscì a traversare i cavalli in furia, puntando rabbiosamente a posare quella corona innocente sulla Piramide Cestia, luogo simbolo della Resistenza disperata dell’8 settembre del ‘43. Ma a un passo dall’antico monumento l’assalto della truppa si fece più forsennato. Vidi con i miei occhi come fu selvaggiamente, e più volte, colpito al capo un compagno catanese, Pezzino, assolutamente inerme, salvato per miracolo dall’intervento di Lizzadri, che rabbiosamente levava in alto la sua tessera di dirigente della Camera dei deputati. E sembravamo, io e Lizzadri, ridicoli nelle nostre proteste mentre un pugno di poliziotti sbrigativi ci cacciavano dentro una buia camionetta, accompagnando la violenza con una furente dose d’insulti. C’era una certa ironia nelle parole con cui, più tardi, nella sede centrale della questura, mi accolse il commissario capo, restituendomi il tesserino di deputato: Onorevole, sapete come accade… Quasi a dire: Ma voi, dove vi andate a cacciare… Per un istante mi venne di rispondere rabbiosamente: già, dove mi vado a cacciare… Come sempre la violenza più pesante e diffusa esplose nelle terre del Sud: a San Ferdinando di Puglia gli sbirri giunsero a spaccare la testa a gruppi di braccianti col calcio dei moschetti.

PER I MORTI DI REGGIO EMILIA (parte)

Compagno cittadino,
fratello partigiano,
teniamoci per mano
in questi giorni tristi:
di nuovo a Reggio Emilia
di nuovo là in Sicilia
son morti dei compagni
per mano dei fascisti.
Di nuovo come un tempo,
sopra l’Italia intera
urla il vento e soffia la bufera.
-F. Amodei






