L'è el dì di Mort, alegher.

Creato il 31 ottobre 2013 da Gianlucaweast @gianlucaweast
Ai morti non gli fa più niente tutto il girarsi e rigirarsi dei vivi. Immagino - soltanto - una paziente tolleranza. Indifferenza no. E non c'è nemmeno indifferenza dei vivi verso gli altri. Gli altri morti. E verso gli altri vivi rimasti con i propri morti. In Siria, ad esempio. Et altrove ugualmente: le terre del Medio Oriente, dell'Africa, altre ancora, non raccontate. Le terre dei perduti. Va scritto, in questi giorni dove - da noi - i morti chiamano, anche se in realtà se ne stanno zitti e questo richiamo è soltanto vissuto (dai vivi) come un moto collettivo verso le loro (dei morti) fittizie, o direi terrene dimore (celle, monolocali: le tombe, parola che sa di ghiaccio e non mi piace…). Anzi, direi che in questi giorni i morti (i nostri morti) chiamano noi (sopravvissuti) alla partecipazione et estensione della memoria agli altri, ai morti in guerra, sotto le bombe, il fosforo, dentro le nuvole dei gas: i vecchi, le donne e cristosanto i bambini. 
Credo, profondamente, e per cognizione di causa e per i numerosi messaggi negli anni (e ancora oggi) ricevuti e per le testimonianze raccolte, che la concentrazione spesso solitaria davanti a un nome (o a più nomi), ma comunque sempre davanti a due date comprenda nel contempo et senza sforzo la disponibilità a sentire il dolore degli altri e a viverlo, sotto la pelle. C'è una parola migliore che non "disponibilità": la parola necessità
Scrivo questo per contraddire chi, invece, oggi mi pare, svalangava sulla carta stampata locale una non trascurabile quantità di parole per dimostrare una non dimostrabile (sarebbe ingiusto) indifferenza della gente di qui (Occidente nel senso largo) verso la gente che altrove sta peggio di noi. Testimonio invece, per averla raccolta, la profonda solidarietà della (nostra, si può dire?) gente verso gli altri. Verso la vita degli altri. 
Il fatto che chi dovrebbe raccontargliela, la vita degli altri, gliela racconti sempre meno, questa vita, è una storia diversa. Parlo dell'informazione. Anzi: "informazione", virgolettata. E su questa storia diversa dovrebbe invece abbattersi la valanga delle parole (indignate) di chi lamenta una non sopportabile (ma nemmeno dimostrabile) indifferenza. Io, e chiudo, ripeto: chi, a casa nostra, si sta raccogliendo davanti a due date (per quante esse siano, e voglio dire: per quante esistenze trascorse esse contengano) ha, dentro, il racconto anche della vita degli altri. E a questa vita (a queste vite) lontana (lontane) partecipa. 
Propongo, senza filtro, qualche scatto realizzato velocemente nel cimitero dove oggi sono andato a trovare i Miei, mia madre, mio padre, chi li ha preceduti. Ho pensato - senza sforzo: tutto naturale, nello scorrere del sangue - agli altri morti e agli altri rimasti vivi (quanti? e per quanto tempo? e lo sono ancora?) che ho visto e conosciuto lontano, ad esempio in Siria, che ricordo, a seguire, con qualche altro scatto. I nostri morti e i loro morti. I morti. E chi li ricorda. 
Se c'è, nel giorno dei morti che arriva (e in questo prepararsi), un motivo per stare "alegher" (Delio Tessa,) lo trovo, e senza nemmeno scavare troppo, nella trasparente consapevolezza che nelle persone che ho incontrato oggi c'era (c'è) una nota individuale accordata sul dolore e il ricordo: dei propri morti, certo, ma anche di quelli lontani. Accordata anche su questa nota: lo sforzo immenso di trovarci un senso alla vita. E un senso alla morte, che non ne ha. Comunque essa avvenga e sia avvenuta. Ha un senso il pensarci. Ai nostri morti. E pure (nell'istante medesimo)  a quelli che si portano via le guerre.
La gente ci pensa. Sebbene questa morte (e la vita che la precede e la vita che resta...) gli venga sempre meno raccontata. Chi si indigna con la penna (inchiostro… quanto tiene?) dovrebbe indignarsi con qualcun altro. Non con la gente. La gente ci pensa. Ai suoi morti. E agli altri. Anche ai morti degli altri.















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