L’Italia è un paese civile con un ordinamento da fare invidia alle altre nazioni europee, con una legge penitenziaria illuminata, rivisitata, integrata nel corso del tempo e con una struttura di divisione dei poteri che, sulla scia di L’Esprit des lois di Montesquieu, conferisce equilibrio all’interno delle istituzioni. In un precedente articolo pubblicato su il Riformista dal titolo “Magistratura, dal merito alla professionalità” avevo evidenziato l’importanza del ruolo delle toghe soprattutto in riferimento all’autonomia e all’indipendenza. Molto si è scritto sull’argomento e diverse sono le domande che oggi ci si pone, specie in virtù del conflitto di attribuzione sollevato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nei riguardi dei P.M. palermitani. Orbene, l’ex presidente della Corte Costituzionale Zagrebelsky delinea l’argomento sviando sulle conseguenze, negative o positive, che si ripercuoteranno nei confronti di un potere o dell’altro. Ha allontanato così le cause, i motivi, la radice alla base della questione. Come è fuorviante, d’altronde, discorrere di “consapevole ingenuità” dell’intellettuale ove sarebbe più proficuo riferirsi a concetti di imparzialità, obiettività e libertà dell’intelletto da ogni influenza, simpatia e/o indirizzo politico. Credo che il caso qui in esame riguardi precipuamente la sfera dei poteri, di un potere che oggi deborda da quello istituzionale non essendo rivolto alla garanzia della sottomissione dei cittadini allo Stato. Trattasi di un potere politico esercitato dentro e attraverso l’istituzione statuale stessa; M. Foucault addirittura lo annovera come “forma di guerra o di politica, strategie diverse per integrare rapporti di forza squilibrati, eterogenei, instabili”, C’è una frase che ne riassume sostanzialmente il senso: “Malgrado gli sforzi che sono stati fatti per isolare il discorso giuridico dall’istituzione monarchica e per liberare l’elemento politico da quello giuridico, la rappresentazione del potere è impigliata in questo sistema1. Il che lascia intendere che la magistratura non può e non deve sostituirsi al potere politico né viceversa, il potere politico deve invadere il campo del potere giudiziario. Oggi, purtroppo, tra le due sfere, si è giunti a una commistione da un lato, e ad un’invasione di settore dall’altro. Quindi, nei momenti di criticità, tali distorsioni generano giochi di forza. Se il Parlamento nasce per fare le leggi, esso non può delegare costantemente al governo, come quest’ultimo non deve abusare della decretazione d’urgenza. Se una legge deve stabilire la giusta risposta rispetto ad un “poter o non poter fare” allora non si deve permettere che l’istituzione giudiziaria, per casi identici, utilizzi interpretazioni diverse come anche interpretazioni uguali per casi dissimili. O ancora, ordinanze in contrasto con leggi formali che derogano a queste ultime. Dunque, se si decide di far parte del Parlamento è necessario conoscere i mutamenti e processi che avvengono all’interno della società al fine di poter proporre delle riforme mirate nei più disparati settori. La magistratura deve, invece, applicare quelle stesse leggi ma evitando sia di proporre delle modifiche che di adeguarsi a indirizzi governativi/politici nell’emissione di sentenze civetta a danno o a beneficio solo di taluni cittadini. Infine, il ricorso alla giurisdizione penale, civile e amministrativa dovrebbe rappresentare l’extrema ratio, l’eccezione alla regola e non l’adozione di una prassi costante. Senza entrare nel vivo delle discussioni intervenute negli ultimi tempi, mi si consenta di osservare che il fatto di riprendere questioni irrisolte relative a venti anni fa la dice lunga su di una Magistratura a suo tempo inoperosa. Ci si dovrebbe chiedere come mai le toghe abbiano deciso di indagare in ritardo e come mai alcuni rappresentanti della politica abbiano interagito con persone detenute per reati anche di un certo spessore, sostituendosi ai giudici. Oltre alla necessaria riforma elettorale per l’elezione di persone oneste e preparate, credo sia a questo punto urgente una legge di riforma che abolisca il fuori ruolo per la categoria dei magistrati e che obblighi coloro che intraprendono una carriera sia nell’uno che nell’altro versante a percorsi a sensi unici, senza possibilità di ritorno, per salvaguardare da un lato il principio di legalità e dall’altro una politica esente da condizionamenti.
1 M. Foucault, La volontà di sapere, storia della sessualità, 2001